Un bilancio intermedio.

Da www.peacereporter.net

Libano – 16.8.2006

Un bilancio intermedio
I cannoni tacciono, ma i problemi restano
I cannoni tacciono e questa è una buona notizia. Ma proprio adesso è doveroso tirare le somme, per quanto parziali, di questo conflitto. Le immagini dei festeggiamenti sono arrivate sia dai militari israeliani che dai sostenitori di Hezbollah, entrambi autoproclamatisi vincitori di questa guerra. Quelle immagini tradiscono una della poche certezze di questi tempi: i conflitti moderni non hanno mai vincitori.
 
Il fronte israeliano. La conferma che le immagini dei militari festanti d’Israele non corrispondano a un diffuso sentimento generale nel paese è l’editoriale che il prestigioso quotidiano israeliano Ha’aretz pubblica oggi. “Il Capo di Stato maggiore Dan Halutz si deve dimettere”. Il corsivo accusa il comandante delle operazioni di aver sbagliato praticamente tutto. Lo accusa addirittura di aver trovato il tempo di vendere delle azioni poche ore dopo la cattura di due militari israeliani il 12 luglio scorso, mentre tutto il paese era con il fiato sospeso e si sentiva sotto attacco. Ma il vero problema è che non è stato raggiunto l’unico obiettivo che potesse ripagare lo Stato d’Israele della decisione di aprire un secondo fronte in Libano, proprio mentre sulla Striscia di Gaza infuriava l’operazione ‘pioggia d’estate’: la distruzione della rete degli Hezbollah. Il movimento sciita, negli ultimi giorni di combattimenti ha aumentato invece che diminuire il lancio dei razzi su Israele. Le immagini di Haifa e delle altre città del nord d’Israele martoriate dal costante lancio di razzi hanno sconvolto gli israeliani. Il gruppo di miliziani ha certamente subito un colpo durissimo ma è riuscito nell’intento di serrare le fila, proteggere il suo leader Hassan Nasrallah e guadagnarsi la stima e il sostegno di una parte del mondo arabo e islamico. In compenso, Israele ha dovuto pagare un prezzo molto alto a livello d’immagine e di opinione pubblica internazionale. Le immagini della strage di Cana non verranno mai cancellate e, come Sabra e Chatila nel 1982, rischiano di diventare un marchio indelebile per un paese che sembra non riuscire a garantire la sua sicurezza senza commettere azioni delle quali pagare poi il prezzo politico ed emotivo. Senza contare le perdite di Tsahal, l’esercito israeliano, che sono state cospicue e delle quali diventerà il simbolo il giovane Uri Grossman, il figlio dello scrittore David, il quale per la prima volta si era schierato a favore della risposta armata.
 
Opinione pubblica delusa. Se il bilancio militare per Israele non è soddisfacente, anche quello politico è ricco di perplessità. Dopo il plebiscito iniziale che ha accompagnato l’attacco a Hezbollah, un sondaggio pubblicato dal quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth rivela che il 63 percento degli israeliani ritiene che il ministro della Difesa Peretz non abbia condotto le operazioni nel migliore dei modi. Inoltre il 51 percento degli intervistati ritiene insoddisfacente l’operato del premier Ehud Olmert e solo il 30 percento ritiene che la campagna in Libano si possa considerare una vittoria. Anche perché, secondo lo stesso sondaggio, il 70 percento degli israeliani sono insoddisfatti della tregua, accettata senza la preventiva liberazione dei due militari catturati il 12 luglio scorso. Già durante le operazioni militari, sia Ha’aretz che Ma’ariv, rispettivamente vicini al centrosinistra e al centrodestra, condannavano l’operato del successore di Sharon e il suo governo di coalizione che ha finito per scontentare tutti, sia i sostenitori di Kadima (il partito di Olmert) che i laburisti di Peretz, alleati del premier. Yossi Sarid, deputato israeliano dell’opposizione di sinistra del partito Meretz, ha colto subito l’occasione per attaccare il Labour dalla colonne di Ha’aretz, chidendosi che razza di sinistra possa considerarsi la squadra di Peretz. Dall’altra parte, l’opposizione di destra guidata da Benjamin Netanyahu del partito Likud sottolinea come la politica del ritiro unilaterale da Gaza e dal Libano non abbia garantito la sicurezza d’Israele.
 
Il fronte libanese. Se Atene piange, Sparta non ride. Circa mille civili morti sono il prezzo terribile che il paese ha pagato a questa guerra, ma le immagini dei profughi che tornano a casa sono il simbolo di un paese distrutto. Un milione di persone ha perso la propria casa, il proprio lavoro e ha bisogno di aiuto, un aiuto che il governo libanese non è in grado di dare. Il Libano, dopo la guerra civile che per 15 anni lo aveva insanguinato, stava faticosamente ritornando alla vita, comunque ancora lontana dagli splendori degli anni Sessanta. All’improvviso tutto si è di nuovo trasformato in macerie. Secondo John Sfakianakis, un economista del Centro di Ricerca del Golfo a Dubai, che ha pubblicato un articolo sul quotidiano libanese Daily Star, la situazione è disastrosa. Secondo Sfakianakis, solo per le infrastrutture, il danno per le casse libanesi è di oltre 2,5 miliardi di dollari. Un’enormità alla quale vanno aggiunti il declino della produzione generale, la perdita di reddito pubblico dall’Iva e dalle imposte, il crollo del flusso turistico e la perdita del reddito proveniente dal settore privato dovuto ad una drastica diminuzione delle attività commerciali. Uno degli aspetti che Sfakianakis sottolinea è il boom dei prezzi al consumo. “Il blocco della circolazione via terra, mare e aria imposto dagli israeliani ha fatto sì che molti beni sparissero dagli scaffali dei supermercati nel corso dei primi giorni del conflitto”, sostiene l’economista. Al danno economico si aggiunge quello ambientale, con circa 120 dei 220 chilometri di costa compromessi dall’enorme quantità di combustibile e olio riversata in mare dalla distruzione della centrale elettrica di Jiyyeh. Con conseguenze nefaste sulla pesca e sul turismo. Il turismo era appunto la locomotiva della ripresa economica del paese. Ancora Sfakianakis sottolinea che  “a metà maggio il Ministro del Turismo, Joe Sarkis, affermò che in base alle previsioni 1,6 milioni di turisti (un incremento del 45 percento rispetto al 2005) avrebbero visitato il paese nel 2006, portando al paese 2 miliardi di dollari in valuta straniera”, soldi che probabilmente adesso andranno da qualche altra parte.
 

Un paese diviso o unito? Anche l’assetto politico libanese è stato sconvolto da questa guerra. Il principale risultato ottenuto dalla politica di pacificazione del dopo guerra civile era l’ingresso di Hezbollah nel governo, con due ministri. Sembrava avviata una conversione della milizia sciita filo-iraniana in un partito tradizionale. Con il ritiro dell’esercito siriano era iniziata la stagione delle autobomba, che era costata la vita all’ex premier Rafik Hariri e a tanti altri esponenti del fronte anti Damasco, ma anche questa stagione sembrava avviata alla fine. Proprio per il 12 luglio, data d’inizio delle ostilità, era in programma una seduta decisiva del Dialogo Nazionale, un tavolo di negoziati dove sedevano sciiti, sunniti, filosiriani, antisiriani, cristiani e drusi. Tutte le anime del Libano. Non è ancora chiaro se Hezbollah abbia deliberatamente provocato Israele per legittimarsi di nuovo come movimento di resistenza, del quale pochi ormai sentivano la necessità dopo il ritiro israeliano del 2000, ed evitare così il disarmo, o è stato costretto a farlo dal padre – padrone Iran, desideroso di distogliere gli occhi del mondo dal suo programma nucleare. Comunque sia andata, adesso Hezbollah si è di nuovo accreditato come baluardo contro la violenza israeliana. Al contrario di ogni previsione israeliana, l’opinione pubblica libanese si è ricompattata, con sunniti e cristiani che hanno accolto a braccia aperte sciiti in fuga dal sud, un fenomeno questo del tutto nuovo. Il Libano si è persino riavvicinato alla Siria, dalla quale si era allontanato dopo l’omicidio Hariri. Il paese si è stretto attorno alle macerie, ma questo significa che il dialogo nazionale è di nuovo bloccato e il disarmo di Hezbollah, in questo momento, potrebbe far riesplodere la violenza nel ‘paese dei cedri’.

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