Una madre, una figlia malata di cancro ed una pila di documenti a Qalandiya

Qalandiya – The Palestine Chronicle. Di Tamar Fleishman. La donna palestinese era su una barella.

Sembrava indifesa, immobile, riparata da coperte fino al collo.

Tutto il suo corpo era legato alla vecchia barella. Sembrava scollegata da ciò che la circondava: una malattia che sta divorando il suo corpo all’interno e soldati israeliani armati che abbaiano ordini e le negano la libertà all’esterno.

Questa era la scena al checkpoint militare di Qalandiya, che separa Ramallah da Gerusalemme.

Continuavo a guardarla. “Questa è una paziente malata di cancro”, mi ha detto il paramedico palestinese.

Era una giornata molto calda. Il sole era impietoso. Ma il volto della donna era così pallido, come se fosse scolpito nel ghiaccio.

La madre della paziente si è avvicinata lentamente ai soldati israeliani per mostrare loro i documenti di identità e di transito che aveva preparato con cura.

Ha aperto intuitivamente le sue borse, per dimostrare ai soldati che né lei né la figlia stavano trasportando nulla di “pericoloso”.

A Qalandiya, nessuno viene risparmiato dalla lunga attesa, dall’umiliazione o dalle irragionevoli aspettative dei militari, nemmeno i malati terminali, che cercano disperatamente di raggiungere un ospedale al di là del muro dell’Apartheid israeliano.

E solo le donne sono autorizzate ad accompagnare i familiari malati. Padri, mariti e fratelli non sono ammessi, perché il cosiddetto sistema di “sicurezza” israeliano considera ogni maschio palestinese un “terrorista” o, nella migliore delle ipotesi, un potenziale “terrorista”.

Ho pensato a tutti questi pazienti che sono morti attraverso i checkpoint e i muri, senza dire addio ai loro cari.

Questo è razzismo al lavoro.

L’anziana madre continuava ad estrarre nervosamente altri documenti, mentre sua figlia rimaneva sulla barella, con il suo destino che veniva determinato da giovani soldati israeliani armati.

Traduzione per InfoPal di F.H.L.