A distanza di un anno dall’offensiva israeliana, i bambini di Gaza non riescono a dimenticare

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Memo. Di Motasem A Dalloul. Durante l’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza di 51 giorni, che è durata dal 7 luglio al 26 agosto dello scorso anno, un gruppo di bambini palestinesi fuggì verso la spiaggia per scappare dal duro ed intenso bombardamento delle abitazioni, degli ospedali, dei centri sanitari e dei campi da gioco, e andò là per giocare a calcio.

Pensavano che la spiaggia, un’area all’aperto, fosse un posto sicuro perché non era mai stata utilizzata dalla resistenza palestinese. Malgrado sette di loro fossero arrivati sani e salvi sulla spiaggia, alcuni minuti dopo quattro furono uccisi e tre rimasero feriti dopo essere stati colpiti da alcune granate partite evidentemente da una nave da guerra israeliana.

“Quel giorno, il 16 luglio, un certo numero di razzi israeliani F16 colpì il nostro quartiere”, spiega Sayid Baker, 13 anni, uno dei bambini che si trovava sulla spiaggia. “Mio fratello, i miei cugini ed io scappammo e decidemmo di andare sulla spiaggia invece di fare ritorno a casa”.

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Il padre di Sayid, Ramiz Baker, 45 anni, quel giorno era impegnato con i suoi vicini, le cui case erano state colpite ed i loro parenti o cari erano rimasti uccisi o feriti. Pensava che i suoi bambini fossero al sicuro perché sapeva che stavano giocando a calcio sulla spiaggia.

“Sono rimasto stupito quando ho sentito la notizia che gli israeliani avevano colpito la spiaggia di Gaza”, afferma. “Mi sono immediatamente accasciato poiché sapevo che i miei figli stavano giocando là; sono rimasto cosciente, tuttavia, poi mi sono alzato e sono corso verso la spiaggia con mio fratello e due cugini”.

Nell’auto, Ramiz ascoltava le stazioni radio locali, e venne così a sapere che un gruppo di bambini della famiglia Baker erano stati colpiti e che alcuni di loro erano stati uccisi ed altri feriti.

“Fermai l’auto e chiesi ad uno dei miei cugini di mettersi alla guida e di dirigersi verso l’ospedale Al-Shifa. Sapevo che ormai le vittime erano arrivate all’ospedale, sia che fossero morte o vive”.

Quel che vide all’ospedale era una “catastrofe”, ricorda. “Trovai decine di miei parenti e vidi i corpi di quattro bambini sdraiati davanti alla porta dell’obitorio. Fu uno shock”.

Sebbene Sayid fosse rimasto ferito – e ciò aveva reso suo padre “pazzo e triste” – almeno, Ramiz mi conferma, si era ristabilito un paio di mesi più tardi. Infatti, l’unico problema che ancora ha Sayid, secondo suo padre, è il fatto di non riuscire ad andare giù alla spiaggia, che si trova ad un passo da casa sua.

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“Il problema più difficile per me”, afferma Ramiz, “è che mio figlio Muntaser è rimasto in silenzio dal giorno del massacro”. Ritiene che se Muntaser avesse perso uno dei suoi arti, come è accaduto a molti altri bambini rimasti feriti, sarebbe stato più facile recuperare piuttosto che il trauma psicologico che sta vivendo da quel giorno.

Secondo un comunicato dell’Unicef sugli eventi della scorsa estate “I civili, soprattutto i bambini palestinesi, hanno pagato le spese per le ostilità a Gaza, il terzo scontro militare più grave in sei anni tra Israele e Gaza”.

Durante quei due mesi, che comprendono i 51 giorni dell’offensiva, gli israeliani uccisero 2.260 Palestinesi, compresi 551 bambini, e ne ferirono oltre 11.000, dei quali 3.370 erano bambini. L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che circa 1.000 bambini che rimasti feriti soffriranno di una disabilità permanente.

A seguito dell’offensiva l’Unicef aveva affermato che almeno 373.000 bambini avrebbero richiesto supporto psicologico diretto e specializzato. L’ONU ritiene che circa 1.500 bambini siano rimasti orfani. Anche il diritto all’educazione dei bambini di Gaza è stato influenzato in modo grave, con almeno 258 scuole danneggiate durante l’aggressione israeliana.

Col supporto psicologico Sayid potrebbe tornare facilmente a parlare, ma non è ancora nemmeno capace di tornare a scuola. Anche suo fratello Muntaser non riesce ancora a parlare.

Lo psichiatra infantile Sami Eweeda, che fa parte del Gaza Community Mental Health Program, ha detto che è molto difficile mettere fine alle ripercussioni psicologiche negative delle aggressioni israeliane sui bambini palestinesi di Gaza. “Quel che viene maggiormente richiesto a Gaza è il fatto di sentirsi sicuri”, ha affermato. “Ciò non è possibile poiché dipende dalla volontà e dalle decisioni politiche”.  Finché non vi saranno le garanzie che questo tipo di aggressioni contro i Palestinesi finirà, la sofferenza psicologica dei Palestinesi di Gaza continuerà, ha aggiunto. “Non vi è nessuna reale possibilità che qualche trattamento sia efficace senza che esistano queste garanzie”.

Prima di lasciare Sayid, suo padre ed il suo silenzioso fratello, l’adolescente mi ha detto: “Se non ci fossero state le guerre non avessi perso i miei fratelli e cugini e sarei tornato a giocare a calcio sulla spiaggia ancora e ancora e ancora”. Resta la sua speranza di essere capace di tornare ancora a farlo.

Traduzione di Aisha Tiziana Bravi