Aggiornamenti dal Convoglio ‘Hope’ dell’European Campaign to end the siege on Gaza.

 

Riceviamo da Monia Benini e Fernando Rossi, del PBC – Per il bene comune -, membri del Convoglio internazionale Hope partito lunedì da Genova e Milano e diretto nella Striscia di Gaza.

Il Cairo, 14 maggio.

Dal punto di vista della Carovana della Speranza siamo pronti ad ogni eventualità: qualcuno ieri ha addirittura contattato la compagnia di trasporto italiana per dire loro di tornare in Italia senza consegnare il carico. Se ciò avvenisse, ovviamente un pool internazionale di avvocati si muoverebbe immediatamente dal punto di vista legale rivalendosi sulla ditta per la mancata consegna e per la modifica delle disposizioni pattuite contrattualmente.

Fernando Rossi sta cercando da ieri di contattare l'ambasciatore italiano al Cairo o un suo portavoce, con continue telefonate. Ma nulla. Anche stamane la risposta è stata che sono tutti troppo impegnati per ricevere il capo di una delegazione europea che sta portando aiuti umanitari a Gaza. Proprio oggi, fra l'altro, sono attese le delegazioni di parlamentari dalla Grecia, dalla Svizzera, dall'Inghilterra e da altri Paesi europei che, insieme a noi, dovrebbero accompagnare al valico di Rafah la Carovana della Speranza. Nel frattempo, in mattinata, Madi Arafat (il presidente di The European Campaign to end the siege on Gaza), Nando ed io abbiamo appuntamento al ministero degli Esteri egiziano per spiegare le ragioni del convoglio.

Ieri sera abbiamo incontrato una equipe di giovani che sono arrivati apposta da Londra per girare un film sulla Carovana della Speranza. Questa sera ci intervisteranno e faranno le prime riprese. Parlando con loro, ho saputo che le due ragazze del gruppo sono state lo scorso mese di novembre in Iraq per un progetto concentrato sui diritti dei bambini, e una è stata in Cisgiordania, qualche tempo fa, per tre settimane proprio per sostenere i diritti dell'infanzia.

Per quanto riguarda la situazione a Gaza, purtoppo, mi hanno spiegato proprio ieri che molti degli aiuti internazionali giunti al valico di Rafah non hanno potuto entrare nella Striscia, dal momento che su indicazione israeliana, il valico è considerato una “porta individuale”, ad uso personale, e le ONG e i gruppi che hanno cercato di portare sostegno non sono potute entrare, o sono stati indirizzati agli ingressi israeliani dove non e stato comunque consentito loro l'accesso. Ad esempio, nell'ultimo periodo, sono state distrutte 250 tonnellate di generi alimentari e prodotti di consumo (giunti attraverso la solidarietà internazionale) che erano stati collocati dentro lo stadio di Rafah, in attesa di poter essere consegnati ad una popolazione di un milione e mezzo di abitanti agli stenti. E molte altre centinaia di generi alimentari non potranno essere consegnati perché deperibili e quindi già scaduti a causa della lunghissima, vana, attesa.

E allora penso ai bambini che a poche centinaia di metri di distanza muoiono di dissenteria, a quanti non hanno cibo, né acqua pulita da bere; penso ai feriti e agli ammalati che non hanno medicine o mezzi di cura, penso a chi è costretto nel 2009 ad essere prigioniero in un lembo di terra: prigioniero e privato di quei diritti minimi cosi altamente celebrati dalla Carta Internazionale dei Diritti umani. Penso a chi non può vivere e coltivare la propria terra, penso a chi vede la maggioranza dei propri fratelli (Palestinesi ed Ebrei, tutti figli di Sem), sotto l'imperio di una ideologia massacrante, il sionismo, calpestare il diritto internazionale. Penso a persone che sono state private della dignità della esistenza, del diritto alla vita. E così, mentre non riesco a togliermi dalla testa le parole del titolo del libro di Primo Levi, “Se questo è un uomo” , diventa più facile capire le ragioni profonde della resistenza palestinese. Diventa umanamente comprensibile il ricorso a gesti estremi per ottenere un minimo di giustizia che l'intera comunità internazionale continua da oltre sessanta anni a negare al popolo palestinese. D'altra parte, come ha fatto la Resistenza italiana a liberare il Paese dall'occupazione? Come facevano i “Resistenti” italiani, insieme agli Alleati, a combattere i nazi-fascisti? Non pietre, non razzi Qassam, ma veri e propri bombardamenti a tappeto.  Perché, allora, la Resistenza italiana ha per noi un grande valore, mentre invece quella Palestinese dovrebbe essere considerata “terrorista”? Perché ciò che è valso per noi, non può valere per un altro popolo? Certo, personalmente vorrei tanto che si giungesse ad un dialogo vero, reale, dove la nonviolenza fosse la piattaforma di ogni trattativa, di ogni rapporto diplomatico. Auspicherei una azione politica tale da consentire un confronto civile… ma guardiamo i fatti (e non la propaganda): se l'ONU, se l'Unione Europea, se gli stessi Paesi arabi non si impegneranno realmente per far vincere la diplomazia, è garantito che il popolo palestinese non avrà mai il diritto a far sì che ogni proprio cittadino possa vivere realmente come un Uomo.

Monia Benini

(presidente Pbc)

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