Animalwashing israeliano, strumentalizzare i diritti animali per disumanizzare i palestinesi. Intervista a Grazia Parolari

Animalwashing israeliano, strumentalizzare i diritti animali per disumanizzare i palestinesi. Intervista a Grazia Parolari

InfoPal. Di Lorenzo Poli. In un momento storico in cui il panorama politico è fortemente dettato dall’omogeneità, dalla banalizzazione degli argomenti e dall’assimilazione di contenuti che hanno una connotazione fortemente diversificata al loro interno, parliamo oggi di un argomento di “nicchia” di cui moltissimi non conoscono l’esistenza e di cui molti non ne capiscono il senso. Il significato dell’antispecismo e l’importanza politica delle sue lotte sono molto difficili da spiegare in un contesto come quello palestinese che è attraversato da repressione militare, violenza, segregazione razziale, oppressione delle minoranze da parte del regime sionista di Israele, il quale nel frattempo si preoccupa di dare un’immagine modernizzata e progressista di sé attraverso una forte propaganda internazionale per oscurare l’occupazione feroce dei territori palestinesi. Oggi, con l’Operazione “Spade di ferro” dell’esercito israeliano, sotto le macerie di Gaza si trovano umani palestinesi e gli animali della Palestina vittime dello stesso oppressore. Di questo abbiamo parlato con Grazia Parolari, attivista antispecista molto presente nelle lotte ambientaliste locali sui territori bresciano e bergamasco, vegana, responsabile Area Fauna Selvatica di LAV Bergamo, nonché attivista filopalestinese ed ex-rappresentante nazionale dell’organizzazione antispecista decoloniale Palestinian Animal League Solidariety Italy (PAL).

Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha dichiarato, qualche giorno fa: “Niente elettricità, niente cibo, niente benzina, niente acqua. Tutto chiuso. Combattiamo degli animali umani e agiamo di conseguenza”. Come attivista antispecista decoloniale, come interpreti l’espressione “animali umani” usata dal Ministro?

Il termine è stato ovviamente utilizzato nella sua accezione negativa, espressione dell’ancor viva tradizione antropocentrica che colloca gli animali (non umani) in categorie inferiori alla nostra, e come tali legittimamente sfruttabili e macellabili. Lo scopo è disumanizzare i Palestinesi, giustificando ulteriormente la vendetta in corso, una vendetta che, colpendo coloro che sono “solo animali”, può più facilmente esulare da giudizi etici e morali, perché trattare gli “animali” in modo violento e crudele è quello che avviene quotidianamente negli innumerevoli ambiti in cui essi vengono usati e uccisi senza che la maggioranza delle persone lo trovi condannabile e riprovevole, bensì “normale”.

Il ministro della Difesa nell’utilizzare l’accezione negativa del termine, e smentendo quindi apertamente che si possa guardare agli animali non umani con occhi diversi da quelli dell’antropocentrismo più radicato conferma, allo stesso tempo, come l’etica vegana dei suoi soldati, celebrati come l’esercito “più vegano del mondo”, sia solo l’ennesimo strumento di propaganda ingannevole, volto tra l’altro a creare una falsa distinzione tra i “barbari” palestinesi e gli “illuminati e civili “israeliani. Ho scritto un approfondimento facendo notare al ministero della Difesa israeliano che, se usciamo dall’accezione negativa che lui dà, tutti noi siamo “animali”, compreso lui.

Spesso Israele, per dare un’immagine esemplarizzata di sé al mondo, si auto-investe del primato di Paese più “animal-friendly” usando spesso come mezzo di paragone la condizione degli animali nei Paesi arabi. Vi è davvero una situazione migliore per animali in Israele, o si tratta di animal-washing?

Israele ha sempre cercato di dipingere i Palestinesi come “barbari e incivili”, immagine che viene veicolata anche attraverso i libri di testo scolastici, dove i Palestinesi vengono delegittimati attraverso la disumanizzazione, l’emarginazione, la caratterizzazione tramite aspetti negativi, le etichettature politiche e le comparazioni tra gruppi. Anche visivamente, i Palestinesi sono sempre raffigurati mediante simboli razzisti o immagini che li classificano come “terroristi”, “profughi”, “contadini primitivi”, ovvero i tre “problemi” che costituiscono per Israele. All’interno di questa operazione di delegittimizzazione rientra anche la descrizione dei Palestinesi, o degli Arabi in generale, come popolo “notoriamente” crudele e insensibile verso gli animali, creando quindi una contrapposizione tra i maltrattamenti dei Palestinesi verso gli animali e la cura ad essi riservata da parte degli Israeliani. Questo tipo di contrapposizione viene applicata da Israele anche riguardo le donne, le persone LGBTQ+ e la cura per l’ambiente in modo del tutto strumentale.

In realtà, la definizione di “animal-friendly” associato ad Israele si scontra con la realtà dei fatti:

Israele non ha alcuna legge nazionale contro l’utilizzo degli animali nei circhi, non è contraria agli zoo e agli acquari, non è contraria alla sperimentazione animale. Secondo quanto riferito dall’ONG “Let the Animals Live”, nel giugno del 2020 l’IDF ha condotto esperimenti su circa 1.000 animali, causando spesso gravi danni ai soggetti. Inoltre Israele è il sesto maggior consumatore pro-capite di carne al mondo, il più alto nel Medioriente e il primo consumatore pro-capite di pollame (e qui si potrebbe aprire un’ampia parentesi sul veganwashing). La proposta di legge per vietare il trasporto di animali vivi, che avviene in condizioni terribili più volte segnalate, e presentata per la prima volta nel 2018, in Israele non è mai stata approvata. L’IDF inoltre sfrutta centinaia di cani, addestrandoli per intimidire, minacciare e attaccare i Palestinesi, non facendosi scrupolo di sparare ai cani dei Palestinesi che trovano sulla propria strada quando attaccano i villaggi.

Lo scorso aprile, un articolo di Tom Levinson sul quotidiano israeliano Haaretz parlava di 2.000 cani randagi uccisi da Israele nel 2022 con il solo intento di ridurne il numero. La notizia non ha ovviamente avuto lo stesso risalto di quella riguardante il sindaco di Hebron, Tayseer Abu Sneineh, che nel novembre del 2022 aveva fissato una ricompensa di 20 shekel per ogni cane randagio ucciso. Decisione ritirata dopo un solo giorno grazie alle proteste degli animalisti palestinesi.

Parimenti, sono ormai moltissimi gli attacchi documentati dei coloni verso greggi e mandrie dei pastori palestinesi, con l’uccisione di decine di capi.

Se poi passiamo alla fauna selvatica e alla biodiversità, gli impatti dell’occupazione su di essa sono devastanti, con la barriera di separazione ostacola il movimento naturale di animali selvatici e rettili, minando l’equilibrio ecologico e biologico e la diversità animale nella Striscia e nei Territori senza che questo susciti alcuna preoccupazione da parte di Israele, se non quando deve puntare il dito contro la caccia illegale di ungulati da parte dei Palestinesi.

Israele è talmente “animal-friendly” che non ha vietato ancora le pellicce.

Nel 2021 ebbe grande risonanza la notizia dell’approvazione, da parte di Israele, della legge che vietava il commercio e l’utilizzo di pellicce animali. Tale notizia venne utilizzata per ribadire lo status speciale di Israele come paese illuminato e progressista, esempio a cui gli altri Paesi dovevano guardare, così come Shalo Simhon, allora ministro dell’Agricoltura, ebbe a dire: “Noi (Israele) dovremmo dare l’esempio al resto del mondo sulla questione”, riecheggiando con queste parole la rappresentazione dell’identità nazionale di Israele come eccezionale e come “faro per le nazioni”, idea già radicata nei primi miti sionisti come la “dottrina della scelta divina” che conferisce agli ebrei una “missione morale unica”.

In realtà la legge presentava un’importante eccezione, consentendo il rilascio di permessi se le pelli devono essere utilizzate per “religione, tradizione religiosa, ricerca scientifica, educazione o insegnamento”. Questa scappatoia esenta quindi dal divieto innanzitutto gli ebrei ultra-ortodossi, che spesso indossano cappelli di zibellino, noti come shtreimels, durante lo shabbat e nei giorni festivi. L’impatto di questa legge sul commercio e sull’utilizzo di pellicce è stato quindi minimo, e non ha certamente costituito quella svolta epocale, quel “faro di civiltà”, così ampiamente propagandati. Ha costituito, bensì, l’ennesima operazione di “washing”, di cui l’hasbara israeliana si nutre.

Da anni ti occupi della critica antispecista decoloniale al veganwashing israeliano. Ci racconti i lati oscuri dell’esercito “più vegano del mondo”? Si può essere vegani, violenti e razzisti contemporaneamente?

Personalmente ritengo “oscuro” il solo fatto che si possa concepire l’esistenza di “soldati vegani”, un ossimoro in questione di termini. Alla seconda domanda rispondo con una frase di Ahmad Safi, fondatore di Palestinan Animal League: “Se il veganismo riguarda davvero il non danneggiare un altro essere vivente al meglio delle nostre capacità, e concordiamo sul fatto che le persone sono animali, è logico che un soldato “vegano” impegnato in combattimenti armati contro una popolazione civile non sia solo privo di senso, ma semplicemente non può essere definito vegano. Il governo e le forze armate israeliane o non capiscono la filosofia alla base del veganismo o hanno interiorizzato così tanto il loro veganwashing che non riescono a riconoscere la perversione dietro l’affermazione che, poiché i loro stivali non sono fatti di pelle, in qualche modo non stanno causando danni quando con quegli stivali prendono qualcuno a calci in faccia”.

Netanyahu si è spesso dichiarato a favore dei “diritti animali”, mentre altri politici hanno fatto parallelismi tra la questione animale e la Shoah. Credi che ci sia ipocrisia in questa narrazione?

Senza dubbio, ma non credo ci si debba stupire. Gli israeliani usano i diritti degli animali e il veganismo per ripulire la loro immagine nel mondo, oscurare i crimini dell’occupazione e proporsi come modello.

Riguardo la Shoah, più che le affermazioni strumentali fatte dai politici, preferisco ricordare le parole di Albert Kaplan, figlio di ebrei russi immigrati negli Stati Uniti dopo avere vissuto per anni in Israele: “Le Auschwitz per animali sono ovunque in Israele e alcune di queste sono mandate avanti da sopravvissuti all’Olocausto. […] La maggioranza dei sopravvissuti all’Olocausto sono carnivori che non si preoccupano della sofferenza degli animali più di quanto i tedeschi si siano preoccupati della sofferenza degli ebrei. Che cosa significa tutto questo? Ve lo spiego. Significa che non abbiamo imparato niente dall’Olocausto. Niente. E’ stato tutto inutile. Non c’è speranza”.

Altro problema in Palestina è il randagismo. La causa è dovuta all’occupazione sionista?

Per molto tempo è circolata la narrazione secondo la quale gli israeliani introdurrebbero volutamente decine di cani all’interno dei Territori Occupati, narrazione che non ha mai trovato una effettiva conferma. Documentata è invece la pratica del rilascio di cinghiali sui territori agricoli palestinesi da parte dei coloni, così da devastarne le colture.

Il randagismo, un fenomeno che non è più grave che in altri Paesi della regione, è, tuttavia, influenzato dall’occupazione in diversi modi, a partire dalle difficoltà, soprattutto per quanto riguarda Gaza sotto assedio, di reperire il materiale medico necessario per procedere alle sterilizzazioni e alle cure. Ben sappiamo, infatti, che ogni tipologia di materiale deve avere il nulla osta israeliano prima di varcare i confini della Striscia, e spesso i criteri sono assolutamente immotivati.

Parimenti, le strutture, i rifugi e le persone che si occupano di animali randagi in Cisgiordania devono confrontarsi quotidianamente con gli ostacoli di movimento posti dall’occupazione (check point, strade vietate ai Palestinesi, colonie illegali) nella loro opera di recupero e assistenza ai cani randagi, ostacoli che così come avviene con gli umani, a volte causano la morte di animali impossibilitati ad essere portati dal veterinario.  Vi è inoltre divieto, ovviamente israeliano, di costruire strutture permanenti per ospitarli.

Sul piano interno invece, a Gaza si è dovuta superare l’errata convinzione, da parte di alcune autorità locali, che la sterilizzazione fosse vietata dal punto di vista religioso.

Sebbene non si dia spazio a queste notizie, le operazioni militari israeliani a Gaza e in Cisgiordania, hanno creato sfollati sia tra gli umani sia tra gli animali. Cosa sta succedendo con l’Operazione “Spade di Ferro”?

Non si avranno mai notizie di quanti animali, selvatici e non, saranno stati uccisi o feriti da questa Operazione. Tutti noi stiamo vedendo fotografie di persone che, lasciando forzosamente le loro case e pur non potendo prendere che l’indispensabile, portano con sé i propri compagni, o che scavano tra le macerie per salvarli. Animali umani e non umani che condividono lo stesso destino di sofferenza, sfollamento e morte.

Voglio citare in particolare Saeed Al Err, di Sulala Animal Rescue, l’unico rifugio per animali della Striscia di Gaza, che ha portato con sé a Nuseirat, nel Sud, in un edificio relativamente sicuro, circa 150 gatti e i cani disabili, spostando contemporaneamente gli altri circa 200 cani in uno spazio aperto, sempre nel Sud, e continuando a fornire loro cibo e assistenza, almeno fino a che gli sarà possibile. Come descrive Saeed anche i cani, come le persone, hanno ormai imparato a riconoscere il rumore di un aereo che si appresta a lanciare bombe. Ciò provoca in loro panico, agitazione e stress che si manifesta in ululati e guaiti.

Credo che le immagini di bambini che giocano con questi cani su uno sfondo nero di fumo, sia la rappresentazione stessa di innocenze tradite.

Da ex-rappresentante nazionale italiana di Palestinian Animal League (PAL), come giudichi la condizione degli animali in Palestina?

Come accennavo precedentemente, lo stereotipo degli Arabi che maltrattano e sono crudeli verso gli animali è ancora molto radicato, spesso nutrito dallo sdegno per la macellazione halal (abbastanza ipocrita se fatto da persone che non muovono ciglio sulla “normalità” della “nostra” macellazione ) o sul comune convincimento che per i musulmani i cani sono impuri e quindi per questo sarebbero maltrattati (a tale proposito, le posizioni all’interno della comunità musulmana non sono univoche: basti citare Shawki Allam, gran muftì d’Egitto, che nel 2022, rifacendosi alla scuola malikita, ha affermato  che ogni animale vivente è puro: “È possibile convivere con un cane e continuare ad adorare Dio” ).

Vorrei tuttavia sottolineare come in Palestina, l’avversione verso i cani è causata più dalla paura che da motivi religiosi. Questo perché i bambini crescono con le immagini dei cani utilizzati dai soldati israeliani per minacciare e aggredire le persone.

Negli ultimi decenni, come avvenuto in altre parti del mondo, la sensibilità dei Palestinesi verso gli animali è andata aumentando, grazie anche a molte campagne informative e di sensibilizzazione intraprese da Associazioni locali – una tra tutte Palestiniana Animal League – nelle scuole e presso le istituzioni. PAL è stata anche la prima associazione a promuovere il veganismo decoloniale e intersezionale in Palestina. In particolare, sono state intraprese moltissime campagne contro l’uso del veleno nel contenimento dei cani randagi e sulle modalità di approccio verso questi cani.

Oltre al già citato Sulala Animal Rescue, sono sorti, specie in Cisgiordania, diversi rifugi che ospitano animali in difficoltà e che si occupano di curare e sterilizzare i randagi, di trovare adozioni o di istruire i contadini nella corretta cura dei loro animali “da lavoro” o “da reddito” (tra parentesi: non esistono in Palestina allevamenti intensivi). Vi è anche grande attenzione verso l’ambiente e la fauna selvatica, sulla quale l’occupazione sionista, come citato in precedenza, ha avuto e continua ad avere effetti devastanti, come evidenziato nei report della Palestinian Wildlife Society. Ciò non toglie che in Palestina la caccia sia legale e che vi sia presente sia il bracconaggio che il commercio illegale di specie protette (tutto il mondo è Paese).

Il grande vuoto che riguarda gli animali, è la mancanza di una protezione legale significativa. Esiste, tuttavia, almeno in Cisgiordania, una proposta di progetto, in collaborazione con l’Istituto di Diritto dell’Università di An Najah, per iniziare a elaborare una politica legislativa per regolamentare il trattamento degli animali nelle case, nei negozi di animali, nel commercio di animali, nei macelli, nelle fattorie, nella caccia, nella ricerca, e trasporti. Il ministero dell’Agricoltura sembra aver incoraggiato il lavoro in questo settore e la speranza è che questa iniziativa congiunta porti all’introduzione della prima legge regionale dedicata al benessere degli animali.

In conclusione, direi che la condizione degli animali in Palestina non è poi così differente da quella di altri Paesi che noi consideriamo, dall’alto del nostro “occidentalismo”, più “civili”. Vi sono luci e ombre, ma è indubbiamente in atto un grande cambiamento positivo, che deve fare i conti con pregiudizi, consuetudini, “tradizioni” dure a morire. Esattamente come da noi. Chiudo con un’affermazione di Nada Kitena, 29 anni, una delle fondatrici di Baladi, un gruppo palestinese per il salvataggio di animali con sede a Ramallah: “Qui ci sono palestinesi che si preoccupano degli animali, Palestinesi vegani, Palestinesi che vogliono un mondo in cui gli animali e le persone siano trattati con dignità. Questi palestinesi esistono e sono consapevoli della loro lotta politica per la liberazione nazionale, un’area in cui il benessere e i diritti degli animali sono un campo di battaglia”.

Per approfondimenti:

In che modo le violazioni ambientali di Israele sostengono il suo regime di apartheid https://www.invictapalestina.org/archives/49152

An Environmental Nakba: The Palestinian Environment Under Israeli Colonization https://magazine.scienceforthepeople.org/vol23-1/an-environmental-nakba-the-palestinian-environment-under-israeli-colonization/

Illegal Trade in Wildlife Vertebrate Species in the West Bank, Palestine https://www.researchgate.net/publication/353269400_Illegal_Trade_in_Wildlife_Vertebrate_Species_in_the_West_Bank_Palestine