«Basarsi sul diritto».

«Basarsi sul diritto».

Intervista al nuovo ambasciatore dell’Autorità nazionale palestinese in Italia, Sabri Atiyah, arrivato dopo oltre trenta anni: raccoglie un’eredità importante lasciata dal suo predecessore.

Da poco è arrivato a Roma il nuovo ambasciatore dell’Autorità nazionale palestinese in Italia, Sabri Atiyah. Il cambio avviene dopo oltre trenta anni e il nuovo arrivato raccoglie un’eredità importante, considerando che all’arrivo in Italia di Nemer Hammad,
l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), nell’ambiente politico italiano, veniva considerata una organizzazione terroristica; e il suo predecessore ha fatto molto per cambiare questa visione delle cose. Atiyah ha detto di non ritenere certamente un peso l’eredità di Hammad, visto che grazie ai trent’anni che ha passato in Italia, ha trovato molti amici nel nostro Paese: "Sono felice di venire in un paese come l’Italia, ed è da molto tempo che seguo l’andamento della politica italiana. Sono al corrente, naturalmente, della solidarietà e degli aiuti che anche i governi precedenti hanno offerto per la nostra
causa. Questo lo abbiamo sempre apprezzato molto e siamo orgogliosi di poter contare sulla solidarietà del popolo italiano".
Il diplomatico, che precedentemente svolgeva il suo incarico in Cile, sostiene che ha avuto una vasta eco il grande sostegno che l’Italia ha dato, negli anni 70, al popolo palestinese e alla sua lotta per la creazione della Palestina. Oltre agli aiuti continui messi a disposizione per la costruzione delle infrastrutture palestinesi. Il suo lavoro in Italia, dunque, sarà quello di garantire una continuità per consolidare, con la collaborazione di tutti, quanto finora è stato ottenuto.
Qualunque solidarietà, in ogni caso, non può essere disgiunta da una assunzione della questione politica del popolo palestinese, della sua libertà, della sua indipendenza e della sua organizzazione in uno stato libero, indipendente e democratico. Il lavoro che lo attende nel nostro Paese non sarà facilissimo, sebbene il risultato delle elezioni politiche possa consentire di avere degli interlocutori maggiormente disponibili, con una sensibilità certamente diversa rispetto a quella offerta dal precedente governo.
In passato ci sono stati molti periodi in cui il ruolo dell’Italia, sia pure nell’ambito di determinate alleanze politiche e nel pieno rispetto del riconoscimento del diritto all’esistenza di Israele, per quanto riguarda la causa palestinese ha rappresentato una forza di traino nei confronti degli altri paesi europei. È dunque possibile, ora, riaprire una fase di intensa collaborazione fra in nostro Paese e la Palestina e, più in generale, nei confronti di tutto il mondo arabo. L’obiettivo è quello di resistere e respingere le pressioni di
coloro che, attualmente, auspicano e prefigurano il cosiddetto ‘scontro di civiltà’. Che non è altro, a nostro parere, che uno scontro ai massimi livelli del potere politico ed economico mondiale.
Qual è la sua valutazione sulla situazione attuale e quali sono le prospettive?
Dopo cinquant’anni siamo oggi in una fase cruciale, per quanto riguarda lo sviluppo politico della causa palestinese. La svolta è stata l’11 settembre, poiché dopo quella data anche molti amici hanno cominciato a cambiare opinione, o comunque a disorientarsi riguardo alla situazione palestinese. A determinare l’attuale condizione ha poi contribuito Sharon che, nonostante sia stato giudicato un criminale di guerra dal tribunale, ha utilizzato i media per far passare l’immagine di uomo di pace. E, infine, gli Usa che dopo l’attentato alle Torri Gemelle, hanno messo in atto una campagna che ha di fatto favorito
l’associazione Islam-terrorismo. Sono stati anni di isolamento, con Arafat asserragliato nella Muqata e con tutti contro.
Dunque, anni difficili?
È passata l’idea che, a Camp David, Barak avesse offerto il miglior accordo possibile, con il 90% dei territori e via dicendo. Ma gli stessi osservatori israeliani dicono che questa presentazione fatta dai media non è corretta. La conseguenza è stata l’impossibilità da
parte di Arafat, ma anche dello stesso Abu Mazen, di raggiungere un qualsiasi accordo di pace con Israele.
Cosa succederà con Hamas al governo?
Israele dice di non avere interlocutori, ma sta ripetendo lo stesso disco già sentito con Arafat e Abu Mazen. La comunità internazionale considera Hamas un gruppo terroristico, nessuno mette in evidenza il fatto che nei territori esiste un numero sterminato di ‘check point’ che rendono la vita un inferno per tutti i palestinesi. Il governo israeliano continua a comportarsi, insomma, come se fosse al di sopra del diritto internazionale.
Qual è la strada, pressioni su Hamas o sulla comunità internazionale?
Abu Mazen, nel momento in cui ha affidato l’incarico ad Haniah, è stato molto chiaro sul fatto che il nuovo governo palestinese deve riconoscere tutti gli accordi stipulati tra Israele e l’Anp. Nonché riconoscere l’organismo legislativo del governo, per risolvere i
problemi interni. Il presidente Abu Mazen è stato eletto l’anno scorso, con oltre il 63% dei voti, per portare avanti un programma politico molto chiaro al fine di proseguire il processo di pace.
L’altro candidato, il liberale laico Mustapha Barghouti (tuttora detenuto nelle carceri israeliane, ndr), ha ottenuto il 23%, e questa è la composizione del popolo palestinese. Inoltre, l’operato per la pace del presidente è stato lodato su tutti i fronti, ma nonostante
questo non ha ottenuto praticamente nulla.
In Israele ha vinto Kadima: quale pensa possa essere il futuro scenario?
Kadima, il partito che ha vinto, dice di voler sgombrare i territori e di volere la pace. Ma la sua proposta è ambigua: parlano di un ritiro unilaterale dalle colonie isolate per definire i confini dello Stato di Israele, il che significa tagliare fuori il 40% dei territori palestinesi. In questo modo i contadini palestinesi non possono raggiungere la valle del Giordano, e nessun cittadino può spostarsi da una parte all’altra all’interno della stessa Cisgiordania. Con tanti passaggi per raggiungere le grandi colonie, si spezza il territorio palestinese in due parti. E poi c’è la questione del Muro: anche sua Santità, Benedetto XVI, ha detto che il mondo ha bisogno di ponti non di muri.
Non è accettabile, dunque?
Preciso che quello che sto dicendo non è una mia opinione, ma è ciò che prevede il programma di governo del partito che ha vinto le elezioni in Israele. Il piano di Olmert è inaccettabile per chiunque, che si tratti dell’Autorità nazionale palestinese, di Hamas o di al
Fatah. Abbiamo detto più volte che siamo d’accordo con la visione del presidente Usa Bush, per una soluzione che preveda due stati che possano convivere in pace. Ma Israele non può pensare di chiudere la questione in maniera unilaterale. Il problema è che non c’è nulla che faccia pensare che la comunità internazionale glielo impedirà. Ora più
che mai il popolo palestinese deve contare principalmente su se stesso. Per questo, ribadisco, non è credibile il fatto che Israele continui ad affermare di non avere interlocutori.
C’è una soluzione?
Io credo che bisogna basarsi sul diritto. Hamas non può riconoscere Israele come forza occupante ai sensi dell’art. 51 della carta dell’Onu, che nello stesso tempo da al popolo palestinese il diritto di resistere. In sostanza, la battaglia deve essere condotta
certamente sul piano politico, ma non deve prescindere dal diritto che offre ai palestinesi le armi migliori anche nei confronti della comunità internazionale. Non dimentichiamo, inoltre, che quando Hamas è arrivata al governo si è impegnata con il Presidente Abu Mazen per
una tregua con Israele. La maggioranza del popolo palestinese, infine, indipendentemente da chi abbia votato, è a favore di una pace giusta e durevole.

(Fausto Biefeni Olevano)

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