È il momento giusto per risolvere il problema dei rifugiati palestinesi

MEMO. Di Hossam Shaker. Sembra che questo sia il momento opportuno per risolvere il problema dei rifugiati palestinesi. Il momento favorevole è arrivato, nonostante il fumo che si sta alzando nella regione. Sembra illogico, ma tutti parlano della Striscia di Gaza che ha catturato l’attenzione del mondo, tanto che questo piccolo pezzo di terra ha distolto la gente dalla brutale guerra in Ucraina, dalla competizione tra Stati Uniti e Cina e dalla situazione nei Paesi del Sahel e del Sahara.

La maggior parte dei palestinesi della Striscia di Gaza, la cui popolazione è di 2,3 milioni di abitanti, sono rifugiati le cui famiglie sono state sfollate dalla loro terra e dalle loro case nel 1948 dal nascente stato di occupazione di Israele. I bambini e le loro madri costituiscono i due terzi della popolazione.

È apparso chiaro dagli eventi recenti che la leadership israeliana ha un grande desiderio di sgomberare completamente la Striscia di Gaza e di sfollare la popolazione nella sua brama di vendetta. La descrizione più appropriata per tutto ciò, che l’esercito israeliano ci riesca o meno, è pulizia etnica; qualsiasi altro termine è impreciso e ingiusto. Abbiamo già visto funzionari israeliani e altri vicini al governo Netanyahu annunciare iniziative per spostare con la forza i residenti dal nord e dal centro di Gaza verso il sud, per poi spingerli oltre il confine egiziano a perdersi nel deserto del Sinai.

L’Egitto ha risposto a questi sforzi israeliani con un netto rifiuto ed è stato sostenuto dai paesi arabi, tra cui la Giordania, i quali hanno capito che lo spostamento dei palestinesi dalla Cisgiordania occupata sarebbe stato il passo successivo se fosse stata permessa l’uscita verso il Sinai. Sappiamo che i funzionari israeliani, tra cui il ministro fascista delle finanze Bezalel Smotrich, hanno sviluppato già da anni un piano di pulizia etnica per la Cisgiordania.

Sebbene i governi arabi si oppongano all’espulsione dei palestinesi nel Sinai, il 18 ottobre il presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi, alla presenza del cancelliere tedesco Olaf Scholz, ha proposto un’alternativa nel caso in cui la leadership israeliana insista nel voler svuotare Gaza dei suoi abitanti. Al-Sisi ha proposto di trasferirli nel deserto del Negev, controllato da Israele, presentando ai leader occidentali una forte argomentazione a sostegno della posizione del Cairo, sottolineando che il trasferimento dei rifugiati palestinesi nel Sinai sposterebbe lì anche la resistenza palestinese e nuovi attacchi sarebbero lanciati verso obiettivi israeliani, in un’area più vasta. Questo, a sua volta, spingerebbe l’esercito israeliano a rispondere all’interno del territorio egiziano, ponendo di fatto fine al trattato di pace Egitto-Israele del 1979.

Quindi, cosa si può fare per i rifugiati palestinesi nella Striscia di Gaza? Ci sono cinque possibili opzioni al riguardo; se tutte verranno respinte, il loro destino sarà inevitabilmente terribile.

Il trasferimento nel Sinai è chiaramente la prima opzione, che è già stata rifiutata dall’Egitto e dai governi arabi. Gli obiettivi israeliani sarebbero ancora minacciati attraverso l’esteso confine egiziano e lo spostamento creerebbe una zona di comfort per la resistenza palestinese, con o senza Hamas. I vantaggi geo-strategici del Sinai forniscono ampie capacità di mobilità, coste aperte e opportunità senza precedenti per chiunque volesse danneggiare gli interessi israeliani e minare la pace con l’Egitto.

In caso contrario, la seconda opzione è la proposta di Al-Sisi: il Negev. Israele la sta già ignorando, quindi probabilmente non si tratta di un’opzione valida.

Un’altra possibilità è che l’Europa “pensi fuori dagli schemi” e permetta alla leadership israeliana di completare la pulizia etnica della Striscia di Gaza, per poi aprire le porte ai rifugiati palestinesi concedendo loro il passaporto europeo. Non ci sarebbe bisogno che i rifugiati compiano la pericolosa traversata verso l’Europa su imbarcazioni fatiscenti, così come sarebbe immorale e illogico raccoglierli in campi di concentramento ai margini dell’Unione Europea. D’altra parte, però, secondo i calcoli europei, non sarebbe facile ottenere una “distribuzione equa” dei rifugiati palestinesi tra i 27 Stati membri dell’Unione.

Dato che un crimine europeo – l’Olocausto nazista – è stato usato per giustificare il furto della Palestina per stabilire lo stato di Israele, la terra in Europa sarebbe un giusto compenso per i rifugiati palestinesi.

Nei circoli decisionali dell’UE si dovrà riflettere seriamente su come integrare 2,3 milioni di palestinesi da Gaza, a cui se ne aggiungeranno altrettanti provenienti dalle comunità di rifugiati palestinesi che vivono in condizioni estremamente miserevoli nei vari campi profughi altrove. Ciò significherebbe dover destinare una parte dell’Europa per ospitare fino a cinque milioni di rifugiati palestinesi con pieni diritti di cittadinanza e condizioni dignitose.

In Europa vi sono già circa 667.000 rifugiati palestinesi e loro discendenti, alcuni dei quali potrebbero scegliere di trasferirsi nel “territorio palestinese europeo”. Ciò richiederebbe l’evacuazione dell’equivalente di dieci città europee per ospitare un tale numero e affrontare le conseguenze della missione di pulizia etnica di Israele nella Striscia di Gaza, apertamente sostenuta da Stati Uniti e Unione Europea. È quindi logico che i leader europei più inclini a sostenere Israele si offrano volontari per aiutarlo a sbarazzarsi di quelli che un ministro israeliano ha spudoratamente definito “animali umani”, destinando un territorio grande quanto la Repubblica Ceca, l’Ungheria o tre länder tedeschi esclusivamente ai rifugiati. Dato che un crimine europeo – l’Olocausto nazista – è stato usato per giustificare il furto della Palestina per stabilire lo Stato di Israele, questo sembra un giusto risarcimento per i palestinesi.

Una variante di questa terza opzione potrebbe essere l’assegnazione di un arcipelago di isole greche a questo scopo, con il diritto degli isolani di indire successivamente un referendum popolare sull’indipendenza per innalzare la loro bandiera sulla “Seconda Repubblica Democratica Popolare di Palestina”, dato che sono molto testardi e non vogliono un’alternativa alla loro patria originaria. Da questa realtà palestinese si formerebbe un esercito dalle isole densamente popolate, che nel giro di pochi anni sarà una potenziale aggiunta qualitativa alla NATO, in modo da poter respingere le offerte russe di unirsi al suo asse. Tuttavia, i palestinesi di questa “seconda repubblica di Palestina” non esiterebbero ad intervenire militarmente per costringere le autorità israeliane a porre fine all’occupazione della loro prima patria e per abolire il regime di apartheid imposto al resto del loro popolo; e potrebbero attirare la NATO, con una mossa imprevedibile, in un confronto militare contro lo stato occupante.

Va sottolineato che tutte le opzioni di cui sopra sono contrarie al diritto internazionale e alle convenzioni umanitarie e ignorerebbero la voce degli stessi rifugiati palestinesi, che non viene comunque ascoltata nelle deliberazioni in corso sul loro destino dopo la pulizia etnica. Sembra che tutti vogliano decidere il destino del popolo palestinese senza ascoltare le sue richieste e imporre una “soluzione” specifica minacciandolo di bombardamenti e usando acqua, cibo, medicine, carburante e i beni di prima necessità come merce di scambio.

I rifugiati palestinesi a Gaza hanno due opzioni realistiche. Possono rifiutare di essere sfollati ancora una volta e impegnarsi a rimanere nella Striscia di Gaza, a prescindere da quanto sia difficile e a quale costo. Tuttavia, questa opzione richiede la fine immediata della campagna di pulizia etnica e seri sforzi per rendere vivibile ciò che resta delle città, dei paesi e dei villaggi di Gaza. Israele deve porre fine ai bombardamenti che in pochi giorni hanno trasformato le aree residenziali in cumuli di macerie.

È importante ricordare che nel 2012 le Nazioni Unite avevano annunciato che la Striscia di Gaza sarebbe stata “invivibile” entro il 2020. Questo ci dà un’idea della catastrofe che la popolazione sta affrontando con l’ennesima guerra e la distruzione che si abbatte su una situazione già terribile. La possibilità che questa opzione rimanga possibile si riduce ogni giorno di più, vista l’entità dei bombardamenti dell’esercito israeliano sui quartieri residenziali e sulle infrastrutture civili. Chi vuole mantenere aperta questa opzione deve agire con urgenza per porre fine a questa guerra.

L’opzione più realistica e sostenibile, e una soluzione ideale rispetto alle altre, è conforme al diritto internazionale e alla Risoluzione 194 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dell’11 dicembre 1948, che richiede il ritorno dei rifugiati palestinesi nelle loro case e terre dalle quali sono stati sfollati con la creazione dello stato di Israele. Questa risoluzione è tuttora in vigore, ma il problema è che non è mai stata attuata. La leadership israeliana deve essere spinta al rispetto della risoluzione e questo è il momento giusto per farlo. Potrebbe rendersi necessaria un’abile rete di pubbliche relazioni statunitense per convincere l’opinione pubblica israeliana dei vantaggi di questa opzione e di come essa apra una finestra di speranza in un momento estenuante e angosciante per tutti. Gli israeliani che non possono sopportare l’idea di avere palestinesi che vivono accanto a loro hanno sempre la possibilità di tornare nel loro luogo d’origine o in altri paesi amici di Israele.

Il diritto di tornare alle proprie case e alla propria terra è sancito dalla legge per tutti i rifugiati, non solo per i palestinesi. Se chiediamo oggi ai bambini traumatizzati dai brutali bombardamenti nella Striscia di Gaza da dove vengono, la maggior parte di loro saprà il nome della città, del paese o del villaggio di origine della propria famiglia. È nel loro DNA e insisteranno sempre per farvi ritorno. Per loro non è un’opzione irrealistica. Se Israele è in grado di accogliere un numero apparentemente infinito di immigrati ebrei, perché non può accogliere i palestinesi nati e cresciuti in questa terra e i loro discendenti?

Il legittimo diritto al ritorno per tutti i rifugiati palestinesi è un diritto individuale e non può essere negoziato da governi o autorità, né è soggetto a prescrizione. È intoccabile per il popolo palestinese e la sua insistenza nel voler soddisfare tale diritto è aumentata generazione dopo generazione, al punto che nel 2018 i rifugiati di Gaza hanno organizzato grandi marce pacifiche per diversi mesi, chiedendo di attraversare le barriere israeliane che li separavano dalla loro terra e dalle loro case in quello che oggi è lo stato di occupazione. E durante queste marce, l’esercito israeliano ha ucciso centinaia di manifestanti disarmati e ha inflitto ferite che hanno cambiato la vita a molti di loro.

L’illustre cartografo Salman Abu Sitta ha prodotto un noto libro sull’argomento, insieme a una mappa che elenca le posizioni precise, in inglese, arabo ed ebraico, delle città e dei villaggi spopolati. La mappa è molto apprezzata dagli esperti israeliani. Naturalmente, il ritorno dei rifugiati palestinesi dalla Striscia di Gaza e altrove richiede l’annullamento della legislazione discriminatoria, in modo che non diventino una comunità perseguitata nel paese dei loro antenati.

Questa opzione, ovviamente, non piacerà alla sconsiderata leadership israeliana attuale, ma l’unica alternativa realistica è quella di fermare immediatamente la guerra – oggi e non domani – e porre fine alla distruzione sistematica della Striscia di Gaza. Uno degli “amici” occidentali di Israele deve sussurrare all’orecchio di Netanyahu che lo spostamento dei palestinesi nel deserto del Sinai porterà alla comparsa di un David palestinese che sparerà con la sua fionda oltre il confine, e a quel punto gli eventi del 7 ottobre saranno un incidente relativamente minore rispetto a ciò che accadrà.

Se tutte queste opzioni verranno respinte, seguirà l’annientamento di 2,3 milioni di persone a Gaza, due terzi delle quali sono donne e bambini.

Oggi sono assetati, affamati e malati, stipati in un misero centro di detenzione che puzza di cadaveri schiacciati sotto le macerie. Affrontano punizioni collettive della peggior specie, con esplosivi ad alto potenziale che piovono su di loro con il pretesto che sono “scudi umani”. Il mondo rifletterà sull’ingiustizia di ciò che sta accadendo troppo tardi per salvare i palestinesi di Gaza, e poi costruirà monumenti per ricordare le vittime dell’orribile genocidio; piangerà il ricordo dell’orribile numero di vittime nella Giornata della Memoria del Genocidio di Gaza ogni anno; chiederà perdono a quelli che resteranno della nazione palestinese che sono stati delusi dal mondo, insegnando alle generazioni future questa tragica lezione nella speranza che, per una volta, “mai più” significhi davvero qualcosa.

Traduzione per InfoPal di Aisha T. Bravi