Guerra in Ucraina e il ritorno del “giornalismo embedded”. Intervista a Romana Rubeo

InfoPal. Di Lorenzo Poli. Il giornalismo embedded sembra essere il paradigma di informazione di guerra veicolata dai media mainstream occidentali. Delle dinamiche e delle implicazioni ne parliamo con Romana Rubeo, giornalista, traduttrice e redattrice di Palestine Chronicle.

Cosa si intende per “giornalismo embedded”?

Tecnicamente, il giornalismo embedded è il metodo standard ormai usato per coprire i conflitti. E in linea teorica, nasce per evitare che il giornalista diventi obiettivo di rapimenti o di azioni militari. Per fare questo, però, i reporter sono letteralmente “incorporati” all’interno delle unità militari e questo comporta dei problemi. Problemi di natura tecnica perché, come spiegò Patrick Cockburn in un brillante articolo sull’Independent, questo produce una visione “distorta” della guerra. “Il giornalista (embedded),” dice Cockburn, “si trova sempre al momento sbagliato e al posto sbagliato”.  Vede, cioè, la guerra dal punto di vista dell’esercito che sta accompagnando e questo, oltre a non essere utile nella comprensione della verità, porta allo step successivo, quello più “pericoloso”. Il cronista è usato come strumento di propaganda e cessa di avere il suo ruolo terzo, rinuncia al suo “sguardo critico” e non può, materialmente, raccontare il conflitto da più angolazioni. Per estensione, oggi la locuzione è usata anche per indicare quel giornalismo che si schiera, che parteggia, che porta avanti una visione mainstream, dominante, più legata alla propaganda che alla “verità”, a cui si dovrebbe sempre aspirare.

Quasi sempre, questo tipo di giornalismo presenta un’insidia. Non rivela di essere un giornalismo, per così dire, militante, ma si nasconde dietro la maschera della “neutralità”. E questo produce una distorsione anche nel pubblico che riceve la notizia.

La guerra in Ucraina è iniziata con l'”invasione russa” all’alba del 24 febbraio o molto prima?
All’alba del 24 febbraio è sicuramente  iniziata una fase nuova, per certi versi inedita. Per quanto il Cremlino l’abbia definita una “operazione militare speciale”, si tratta, tecnicamente, di un’invasione. L’opinione pubblica occidentale è rimasta sconvolta, anche perché la maggioranza delle persone non era materialmente a conoscenza di un conflitto che perdura ormai da otto anni.  Dopo i fatti sanguinosi del 2014, gli Accordi di Minsk pongono fine al conflitto aperto, ma permane un cosiddetto “a bassa intensità” (che comunque ha prodotto migliaia di vittime), quello che Sara Reginella descrive nel suo testo “La guerra fantasma nel cuore d’Europa”. Una guerra al confine russo-ucraino, una guerra fantasma agli occhi di tutti i media occidentali, che ha visto le popolazioni delle Repubbliche autoproclamate di Donetsk e Lugansk scontrarsi con l’esercito di Kiev. Una forma di resistenza popolare contro un pericolo reale, contro quel processo innegabile di nazificazione che ha investito una parte del Paese, al punto da far diventare eroe nazionale un personaggio controverso e collaborazionista come Stepan Bandera.

Iraq, Afghanistan, Libia e Siria sono esempi in cui la stampa mainstream occidentale ha diffuso menzogne di guerre. Come funzionano e come vengono create?

È sempre estremamente doloroso ripercorrere quei momenti, perché quelle menzogne hanno portato a conseguenze inimmaginabili. Nel 2007, uno studio dell’istituto britannico Opinion Research Business (ORB) parlava di un milione e duecentomila vittime civili in Iraq. In un video diventato virale qualche tempo fa, il veterano Mike Prysner lo ha gridato forte e chiaro all’allora presidente Bush: “Hai mentito e oltre un milione di persone sono morte. Devi chiedere scusa”. Ma quelle scuse non sono mai arrivate, come non sono arrivate da Colin Powell e Tony Blair.
E non sono arrivate, neanche, da molti giornalisti che hanno rinunciato alla loro missione e si sono fatti biechi strumenti di propaganda. Esistevano, anche all’epoca, il dissenso e lo spirito critico, esistevano visioni alternative, ma il problema era la narrazione dominante. In un articolo del 2004 su The New York Review of Books, Michael Massing scrisse che il problema della stampa americana è “la mentalità del branco”, per cui “direttori e giornalisti non amano discostarsi troppo da quello che tutti gli altri stanno scrivendo”.
In virtù di questa forma mentis, quando una giornalista come Judith Miller, vincitrice del Premio Pulitzer che all’epoca riportava dall’Iraq, si lanciava, dalle pagine del New York Times, nella descrizione dettagliata del presunto arsenale di Saddam Hussein, tutti gli altri, a cascata, contribuivano al propagarsi di questa menzogna.

Tutto questo, nel contesto di un’opinione pubblica estremamente condizionata dal punto di vista emotivo, e manipolata con video e montaggi che farebbero invidia ai più esperti produttori hollywoodiani. Pensiamo al famoso video della BBC in cui un marine americano veniva affrontato da un gruppo di iracheni, giustamente infuriati per l’invasione. L’immagine proposta in quel video disumanizza completamente gli iracheni, che stavano proteggendo il loro Paese da un’invasione militare, mentre il marine emerge in tutta la sua forza narrativa con un potente, quanto mendace: “We’re here for your f***ing freedom!”

Purtroppo, ragionare contro questa narrazione dominante risultava molto difficile, quasi impossibile.

Secondo la tua esperienza, sta succedendo anche con l’Ucraina?

Sono estremamente preoccupata dal clima che stiamo respirando in queste ore. L’opinione pubblica è del tutto polarizzata, ma questo non basta, si sta procedendo all’imposizione di un pensiero unico, con mezzi, toni e strumenti discutibili. Da una parte, la cronaca di guerra: è estremamente difficile comprendere cosa stia accadendo “al fronte”. Ricevere notizie sulle vittime e sulle operazioni militari in corso che non siano filtrate dalla grancassa della propaganda è particolarmente difficile. I numeri ufficiali delle Nazioni Unite, aggiornati al 1 marzo, parlano di 136 civili uccisi in Ucraina. Tra questi, 58 sono nelle regioni di Donetsk e Luhansk. Altre fonti parlano di numeri ben diversi ed è oggettivamente complicato capire dove sia la verità. Così come accadde in Siria, c’è una fortissima incertezza sulle fonti, ogni notizia è fortemente filtrata dalle opposte propagande ed è complicato risalire alla veridicità dei materiali in circolazione. I mezzi social non aiutano in tal senso: un’immagine o un video diffusi su Twitter possono scatenare un effetto a catena immediato, una forte ondata emotiva, a prescindere dalla autenticità degli stessi. In questi giorni è circolato, ad esempio, un video di Ahed Tamimi, la leggendaria e giovanissima attivista palestinese, che gridava in inglese ai soldati israeliani di tornarsene a casa loro. L’immagine è stata proposta con una didascalia in cui si suggeriva che la ragazza era una bambina ucraina intenta a fronteggiare un soldato russo e ha fatto immediatamente il giro del mondo. Gli attivisti palestinesi se ne sono accorti, ma un materiale diventato virale è difficile da “arginare”.
Il problema vero si verifica quando, nelle redazioni, si dà per scontato che le notizie provenienti da una specifica parte siano tutte giuste e corrette. Se non ci si premura di verificare le fonti, si possono trasmettere video di Gaza o di un videogioco e associarli al conflitto in corso. Lo trovo, se posso permettermi, oltre che poco utile, davvero poco dignitoso: è una inaccettabile disumanizzazione e spettacolarizzazione della guerra, che di certo non rende onore alle vittime di nessun conflitto.

Come giudichi le retoriche e le narrazioni dei media occidentali sulla Guerra in Ucraina?

Oltre a quello che abbiamo già analizzato, un elemento aberrante che ho notato è stato il palese razzismo con cui si sono adottati criteri di distinzione tra le vittime ucraine e quelle dei recenti conflitti in Medio Oriente. Due esempi fra tutti: Kelly Cobiella, in collegamento con la NBC dice: “Questi non sono rifugiati siriani, sono rifugiati della vicina Ucraina. (…) Sono cristiani, sono bianchi, sono persone simili a noi”.

David Sakvarelidze, per la BBC, nel commuoversi per le vittime ucraine, va ancora più nello specifico. “Europei con gli occhi blu e i capelli biondi vengono uccisi ogni giorno”, dice. Dinanzi a queste parole, risulta difficile anche argomentare. Ci si chiede, poi, come mai per otto anni, sia calato un silenzio tombale su quella regione in conflitto. Penso che ogni redazione giornalistica dovrebbe interrogarsi e scusarsi per aver tralasciato che, nel cuore d’Europa, migliaia di persone stessero morendo.

Il livello dei dibattiti televisivi e dei talk show italiani è sempre più omogeneo e polarizzato. Anche la polarizzazione è funzionale ad un’ottica di guerra?

Assolutamente, la polarizzazione è fondamentale a costruire una verità ineluttabile, l’unica accettabile secondo un presunto buon senso, da contrapporre a una narrazione che viene dipinta come “di parte” e inaffidabile. In questi termini, risulta quasi impossibile portare avanti un ragionamento, ampliare lo sguardo e l’orizzonte per sovrapporlo ad altri contesti, ad altre situazioni. Chi prova a farlo, nel migliore dei casi viene tacciato di benaltrismo. O può essere persino considerato “troppo putiniano”, come è accaduto a Mark Innaro, storico corrispondente da Mosca che non mi sembra possa essere accusato di simpatie verso il leader del Cremlino.
Ovviamente, questa retorica fallace ma incalzante crea dei veri e propri mostri, delle storture, produce razzismo e scatena una russofobia serpeggiante che si maschera da altro. Eclatante il caso della Bicocca di Milano che tenta di censurare il seminario sul più grande scrittore del ‘900. La toppa che è stata messa dopo, ripristinando il seminario, non serve a coprire il buco.