I fantasmi del passato: per Israele, la guerra all’UNESCO rappresenta una battaglia esistenziale

MEMO. Di Ramzy Baroud. Gerico non appartiene solo ai palestinesi. Appartiene all’intera umanità.

Per Israele, tuttavia, il riconoscimento da parte dell’UNESCO di Gerico come “Patrimonio dell’umanità in Palestina” significa complicare la sua missione di eliminazione della Palestina, sia fisicamente che figurativamente, dall’esistenza.

La decisione è stata descritta dal Ministero degli Esteri israeliano come una manovra “cinica” dei palestinesi che ha lo scopo di politicizzare l’UNESCO.

È un’affermazione paradossale perché Israele ha politicizzato la storia eliminando tutto ciò che poteva essere interpretato come parte del patrimonio storico palestinese, mentre ha edificato una visione egocentrica, e in gran parte inventata, della storia che si suppone appartenga solo e soltanto ad Israele.

Sebbene Israele sia riuscito, grazie alla sua enorme potenza militare, a dominare il paesaggio fisico palestinese, ha invece ampiamente fallito nel dominare la storia della Palestina.

I muri dell’apartheid, i posti di blocco militari e gli insediamenti ebraici illegali sono facili da costruire. E la fabbricazione, invece, di una narrazione storica costellata di bugie, mezze verità e omissioni, è quasi impossibile da sostenere a lungo.

Tutto questo fa parte di una guerra israelo-statunitense dichiarata contro l’UNESCO che continua da tempo. Nel 2019, gli Stati Uniti e Israele si sono ufficialmente ritirati dall’UNESCO, adducendo presunti pregiudizi anti-israeliani. Ciò ha fatto seguito a ripetute minacce da parte di varie amministrazioni statunitensi e a un taglio dei finanziamenti da parte dell’amministrazione Obama nel 2011.

Ma perché una guerra così feroce e determinata contro un’organizzazione che si descrive come promotrice della “pace e della sicurezza mondiale attraverso la cooperazione internazionale in materia di istruzione, arti, scienze e cultura”?

In realtà, l’UNESCO è una delle poche istituzioni internazionali legate all’ONU che sono meno politicizzate, basata sulla convinzione che il passato, e ciò che ne rimane, sia un patrimonio comune che appartiene a tutti noi.

Per quanto tale affermazione possa essere accettata da parte di molti Paesi in tutto il mondo, per Israele i gesti inoffensivi dell’UNESCO nei confronti dei palestinesi sono semplicemente eretici.

Non solo Gerico – e, nello specifico, Tell Es-Sultan – fa parte dell’elenco dei siti patrimonio dell’umanità, ma entrambe le città dovrebbero trovarsi in cima alla lista. Non si tratta di un’ostentazione o di un altro “cinico” utilizzo della storia da parte dei palestinesi, ma semplicemente del fatto che Gerico è la “città abitata più antica al mondo” e Tell Es-Sultan è la “città più antica del mondo” poiché risale al X millennio a.C.

Ad esempio, in base a studi recenti, si ritiene che la torre dell’era neolitica pre-ceramica, risalente all’8300 a.C. circa, segni il solstizio d’estate. Per quasi 6.000 anni è stata la struttura più alta al mondo costruita dall’uomo. E questa è solo una delle tante curiosità strabilianti che riguardano Tell Es-Sultan.

Tutta la Palestina è ricca di questa storia, che traccia la nostra comune discendenza da antiche civiltà che si sono fuse o unite in altre culture, dando vita all’affascinante arazzo che è l’umanità.

E poiché la storia della Palestina è anche quella dell’umanità, gli importanti storici, archeologi e intellettuali palestinesi raramente manifestano un’appropriazione etno-centrica di questa storia, ma si rifiutano di rivendicare una qualsiasi superiorità nei confronti delle altre culture.

“Tutte le prove archeologiche e storiche dimostrano che la Palestina è stata abitata da molti popoli”, ha scritto l’autorevole archeologo palestinese Hamdan Taha nel volume di recente pubblicazione La nostra visione per la liberazione.

La storia palestinese abbraccia un periodo che va dal “Homo Sapiens fino al XXI secolo e, nel corso di questa storia, segnata da molte guerre, invasioni e conversioni, (…) la popolazione indigena non è mai stata completamente eliminata”, scrive Taha.

Una lettura attenta dei commenti di Taha è sufficiente a spiegare i timori di Israele, al limite del panico, ogni volta che la Palestina e i palestinesi vengono associati ad una narrazione storica credibile.

Due punti meritano una riflessione: 1) tutte le guerre, invasioni e conversioni non sono riuscite a interrompere il flusso demografico e la continuità delle popolazioni indigene della Palestina, culminate nei palestinesi moderni; e 2) quelle popolazioni indigene, sebbene alcuni invasori ci abbiano provato ma invano, non sono state “mai completamente eliminate”.

Israele non ha solo tentato di riscrivere la storia e di emarginare gli attori principali della narrazione storica della Palestina, ma ha anche cercato attivamente e continuamente di eliminare del tutto i nativi.

Però ha fallito. Il numero di palestinesi che oggi vivono nella Palestina storica è almeno pari, e in alcune stime è addirittura superiore, al numero di immigrati ebrei israeliani provenienti dall’Europa e da altri Paesi.

Fallita la parte di “rimozione” della storia, Israele sta ora ricorrendo alla duplice strategia della pulizia etnica e della separazione razziale, o apartheid. Quest’ultima pratica, tuttavia, viene ormai sempre più riconosciuta ufficialmente dai gruppi internazionali per i diritti umani, tra cui Amnesty International, Human Rights Watch e molti altri.

I fantasmi del passato sono un ulteriore problema che Israele deve affrontare. Un brillante gruppo di storici e archeologi palestinesi, come Taha, affiancati da coraggiosi e altrettanto brillanti storici israeliani, come Ilan Pappé, sono determinati a portare alla luce la verità sulla storia della Palestina e sull’ingerenza di Israele nella storia.

È grazie a queste persone stimate che è emersa una storia parallela a quella inventata da Israele dopo la Nakba.

Recentemente è stato portato alla luce un altro Tell – la parola araba che significa collina – oltre a Tell Es-Sultan. Il quotidiano israeliano Haaretz ha riferito che gli scavi di Tell Qedesh sono “il primo progetto del genere” che porta alla luce un passato non così lontano.

In questo villaggio palestinese, situato vicino al confine libanese, sono stati commessi crimini di guerra e gli sfortunati abitanti, dopo aver fatto del loro meglio per resistere alle milizie sioniste, sono stati costretti a fuggire.

Per assicurarsi che gli abitanti non tornassero mai più, le autorità israeliane hanno raso al suolo il villaggio.

“Lo scavo è il primo in Israele specificamente dedicato all’esplorazione archeologica dell’eredità di quella che i palestinesi ricordano come la Nakba”, scrive Haaretz.

Per decenni, i palestinesi hanno fatto proprio questo. Diverse generazioni di archeologi palestinesi hanno contribuito a rianimare gran parte di quella storia, antica e moderna. “La regola dell’archeologia è ricostruire il passato per costruire il futuro”, secondo Taha.

A differenza di Israele, tuttavia, la visione di Taha mira a “incorporare le voci di tutti i popoli, gruppi, culture e religioni che hanno vissuto sulla terra di Palestina”.

Questa visione inclusiva è in diretto contrasto con la visione esclusivista, selettiva e spesso inventata di Israele, basata sulla dominazione militare e sulla cancellazione culturale.

Durante la 45a sessione allargata del Comitato del Patrimonio Mondiale, tenutasi a Riyadh il 17 settembre scorso, l’UNESCO ha appena confermato la validità della visione palestinese. E ovviamente Israele è arrabbiato perché gli invasori odiano la verità.

(Foto: [Issam Rimawi/Anadolu Agency]).

Traduzione per InfoPal di Aisha T. Bravi