Il fine ultimo di Netanyahu a Gaza è la sua sopravvivenza politica

The Cradle. Consapevole che una sconfitta di Hamas è improbabile, il primo ministro israeliano è intenzionato a prolungare la guerra di Gaza, principalmente per guadagnare tempo, salvaguardare la sua eredità politica ed evitare il carcere.

Indipendentemente da come finirà la brutale guerra di Israele contro la Striscia di Gaza, sembra emergere un risultato innegabile: la potenziale fine della carriera politica del primo ministro Benjamin Netanyahu. 

Al di là delle ripercussioni immediate dell’operazione Al-Aqsa Flood (Ciclone al-Aqsa) guidata da Hamas, i problemi di Netanyahu hanno radici profonde, intrecciate con i suoi tentativi incessanti di evitare accuse di corruzione e la possibile incarcerazione. Questo lo ha portato a formare il governo più radicale e di estrema destra della storia di Israele, ponendo indirettamente le basi per la storica operazione lanciata dalla resistenza palestinese il 7 ottobre.

La vita politica di Bibi è a rischio .

L’establishment militare e di sicurezza dello Stato di occupazione, pur ritenendo di essere stato colto di sorpresa dalla portata degli eventi del 7 ottobre, aveva intuito l’imminente esplosività della Gaza assediata, della Cisgiordania occupata e persino dei territori occupati nel 1948. 

Le azioni di personaggi estremisti come il ministro delle Finanze Bezalel Somotrich e il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir, di cui Netanyahu si è fatto scudo per mantenere l’unità della sua fragile coalizione di governo, hanno indubbiamente contribuito alla crisi attuale.

Tra la carneficina e la devastazione dell’assalto israeliano in corso a Gaza, la crisi politica interna di Tel Aviv si sta infiltrando nel mini gabinetto di guerra riunito per dirigere la guerra. La divergenza tra Netanyahu e gli ufficiali militari, insieme al suo iniziale rifiuto di perseguire una tregua umanitaria e iniziative per il rilascio dei prigionieri, allude a una crisi che ha radici nella carriera politica del premier stesso.

La disperazione del primo ministro che tenta di aggrapparsi all’immunità politica e di evitare il carcere, lo ha spinto a prolungare la guerra contro Gaza. Crede che questo gli darà il tempo di trovare un accordo di uscita – probabilmente sotto la sponsorizzazione degli Stati Uniti – per evitare un destino simile a quello di Ehud Olmert nel 2006, a seguito dell’aggressione del Libano. Ciò, nonostante le migliaia di morti e feriti causati dalle truppe israeliane e che il conflitto ha comportato.

Netanyahu, pienamente consapevole che eliminare Hamas è un obiettivo impossibile, sta comunque impiegando pubblicamente questo obiettivo bellico come copertura per altri risultati strategicamente vantaggiosi che sta inseguendo: il controllo del gas di Gaza, i progetti di spostamento dei palestinesi verso il Sinai e la Giordania, la spinta per un confronto diretto tra Stati Uniti e Iran e l’eliminazione dei suoi alleati estremisti. 

La lotta interna del Likud.

Contando sul sostegno di Washington, tra le preoccupazioni del presidente Joe Biden per le elezioni presidenziali del 2024, le simpatie europee legate al fabbisogno di gas israeliano e le espressioni di preoccupazione degli arabi senza azioni concrete, Netanyahu è impegnato in una scommessa con un’alta posta in gioco.

La possibile nuova occupazione della costa di Gaza, con le sue ricchezze di gas e la sua posizione strategica – sempre più percepita da alcuni osservatori come l’obiettivo finale di Israele nella guerra – rappresenta un ulteriore premio per Netanyahu, la cui posizione politica è sempre più fragile. 

Al di là dei vantaggi immediati, la resurrezione di un vecchio progetto israeliano – il Canale Ben Gurion dal nord di Gaza a Eilat – potrebbe rimodellare le dinamiche geo-politiche e geo-economiche regionali aggirando il Canale di Suez dell’Egitto.

Tuttavia, la principale preoccupazione di Netanyahu non è solo l’esito della guerra o il calo del sostegno internazionale. È l’imminente spaccatura all’interno del suo stesso partito. Il partito Likud riconosce in Netanyahu la fonte di una crisi politica che dura da anni, segnata da cinque elezioni improduttive, dal 2019, e da profonde divisioni politiche in Israele. 

L’eredità del primo ministro è ora in bilico, mentre lo Stato di occupazione deve affrontare le molteplici ripercussioni politiche, economiche e di sicurezza dovute alla sua guerra contro Gaza.

Semmai, la sproporzionata risposta militare di Israele contro una popolazione per lo più civile – oltre 20.000 palestinesi uccisi in sei settimane – ha peggiorato le condizioni di sicurezza dello Stato di occupazione, attirando il coinvolgimento dell’Asse della Resistenza nella regione, in particolare degli Hezbollah libanesi, ma anche delle forze guidate da Ansarallah nello Yemen. 

Il sentimento crescente all’interno del partito Likud è che la sua sopravvivenza al potere sia sempre più condizionata dall’estromissione del suo leader. Questa convinzione ha preso piede con la recente proposta del leader dell’opposizione e capo del partito Yesh Atid, Yair Lapid. In sostanza, Lapid si è offerto di partecipare a un governo del Likud purché Netanyahu non lo guidi.

Al contrario, gli alleati di estrema destra di Netanyahu riconoscono che l’attuale governo è la loro unica opportunità per mantenere il potere e attuare i loro programmi estremisti. Usano questa leva per costringere Netanyahu a mantenere i contributi finanziari ai partiti e alle istituzioni religiose, a legalizzare gli insediamenti ebraici nelle terre palestinesi occupate e a nascondere i crimini commessi contro i palestinesi – un fattore che ha contribuito all’operazione Alluvione/Ciclone di Al-Aqsa.

Netanyahu riconosce che il coinvolgimento visibile degli Stati Uniti nella sua guerra potrebbe complicare ulteriormente le cose. Tuttavia, Biden è altrettanto cauto nell’impegnarsi direttamente, viste le gravi minacce e le azioni contro le basi militari statunitensi in Iraq e Siria, direttamente correlate alle escalation di Israele sia a Gaza che al confine libanese.

L’Alluvione di Al-Aqsa è riuscita anche a rimandare il progetto di normalizzazione israelo-saudita concertato dalla Casa Bianca e a smorzare quelli esistenti, almeno fino a quando non si troverà un accordo palestinese accettabile. Qualsiasi coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra di Israele rafforzerebbe in modo significativo gli interessi dei suoi avversari russi e cinesi in tutta l’Asia occidentale e anche oltre. 

Gioco d’attesa a Washington.

Con le prossime elezioni presidenziali, i Democratici in carica potrebbero faticare a resistere a queste minacce agli interessi regionali degli Stati Uniti. Mentre il sentimento dell’opinione pubblica si rivolge fortemente contro le brutalità di Israele a Gaza, cresce l’insoddisfazione interna per le continue richieste di aiuti militari e finanziari di Biden da inviare all’Ucraina e a Israele – come dimostra il suo ultimo appello per altri 106 miliardi di dollari.

Le sfide di Biden sono solo esacerbate dalle sue relazioni già tese con il governo di Netanyahu. Prima del 7 ottobre, queste tensioni esistevano perché il primo ministro israeliano e i suoi alleati estremisti si rifiutavano anche solo di contemplare una soluzione a due Stati. Washington vede Netanyahu come uno dei principali ostacoli a qualsiasi risoluzione politica nella Palestina occupata.

Se l’amministrazione Biden riuscisse a gettare le basi per una soluzione a due Stati – per quanto elusiva e improbabile – potrebbe sfruttare questa situazione dal punto di vista politico e mettere a segno una “vittoria”. Netanyahu, da parte sua, mira a prolungare l’aggressione di Gaza fino a quando Washington non accetterà la sua agenda o fino a quando non ci sarà un cambiamento alla Casa Bianca. 

Nonostante alcuni attori regionali e occidentali confidino sul fatto che l’esito della guerra aprirà un percorso per riavviare i colloqui su un accordo di pace permanente, l’esercito israeliano non ha ancora ottenuto nessuna vittoria sostanziale contro Hamas. Nonostante l’aumento dell’estremismo dopo l’Alluvione di Al-Aqsa, in Israele ci sono ancora voci che aderiscono all’equazione “terra in cambio di pace”, in particolare quelle espresse dal leader dell’opposizione Yair Lapid.

In equilibrio tra stallo e opportunità, gli sforzi in corso mirano a condurre tutte le parti verso un accordo. Tuttavia, il tempo sta diventando un elemento critico per la Casa Bianca. 

Le miriadi di sfide dello Stato di occupazione, dal confronto con le minacce dell’asse resistente dell’Asia occidentale, al contrasto dell’influenza cinese e russa, fino al superamento delle responsabilità politiche del governo Netanyahu, pesano molto. Significativamente, le potenziali ricadute di un fallimento di Netanyahu incombono e nessun progetto geopolitico sarà in grado di occultarne le conseguenze.

Traduzione per InfoPal di Aisha T. Bravi