Il ‘golpe’ israeliano e la fine del mito democratico

PC. Di Ramzy Baroud.

Il compito di promuovere Israele come “l’unica democrazia del Medio Oriente” non è più tanto facile. Con il crollo del pilastro della democrazia, anche il pilastro della stabilità si sta sgretolando. E senza stabilità, gli investitori, semplicemente, scappano.

Fin dagli albori, Israele si è costruito un’immagine e un potente mito di fondazione, basati su due pilastri principali: democrazia e stabilità.

Questo mito era principalmente destinato ai potenti Stati occidentali che esercitavano enormi poteri politici, economici e militari.

I governi occidentali, insieme ai loro influenti mezzi d’informazione ufficiali, hanno in parte contribuito, propinando un’immagine di Israele come del Paese più democratico e stabile del Medio Oriente, criticando i nemici arabi e palestinesi, o chiunque altro osasse criticare Israele.

Poco importava se Israele fosse davvero un faro di democrazia e stabilità, perché questi termini vengono spesso evocati e utilizzati per soddisfare gli interessi di chi detiene il potere. Per mantenere le apparenze, Israele aveva un compito abbastanza semplice: trasmettere una parvenza di democrazia a livello interno, sebbene fondata su razzismo e segregazione, e fornire sufficiente stabilità per consentire alle aziende straniere di avere fiducia nella sicurezza degli investimenti in Israele.

La verità, in questo tipo di situazioni, conta poco. A contare sono solo gli slogan e i miti, e un numero sufficiente di persone al potere disposte a ripetere quegli slogan e persino a credere in quei miti.

Nel corso degli anni, Israele si è così accreditata come “l’unica democrazia del Medio Oriente”, come “un’oasi di libertà e stabilità” protetta “dall’esercito più morale del mondo”, e così via.

Ma questa pseudo-realtà può esistere solo in termini relativi. Per elevare Israele, gli arabi dovevano essere sviliti e umiliati, nonostante fosse stato proprio Israele ad occupare illegalmente la terra araba e a scatenare ripetute guerre contro i palestinesi e le altre nazioni arabe.

L’esempio perfetto di quello che era stato, fino a poco tempo fa, il modello israeliano di successo è una dichiarazione fatta dal Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il 13 settembre 2012, esattamente 11 anni fa.

Mentre brindava ai massimi comandanti militari nei quartieri generali dell’Esercito Israeliano in occasione del Rosh Hashanah (Capodanno Laico), Netanyahu ha riassunto in poche parole il senso di trionfalismo israeliano.

“Viviamo in una regione instabile e burrascosa. Sconvolgimenti e tempeste sono in aumento. La forza dell’IDF ha contribuito a far sì che rimanessimo un’isola di stabilità in mezzo alle tempeste”, ha affermato Netanyahu.

Due fatti potrebbero essere sfuggiti a Netanyahu, allora. Il primo è che gran parte degli “sconvolgimenti e tempeste” nella storia moderna del Medio Oriente sono stati il risultato delle azioni di Israele: invasioni militari, occupazione e altri fattori destabilizzanti.
E il secondo, nelle parole di Eraclito: “l’unica costante nella vita è il cambiamento”.

A più di un decennio dalla dichiarazione di Netanyahu, Israele sta ora imparando che non è più isolato dalla “regione instabile e tempestosa”.

È importante sottolineare che il “caos” a lungo percepito in Medio Oriente, paragonato alla “stabilità” di Israele, non è un valore inerente alla storia. Il Medio Oriente, come, di fatto, gran parte del Sud del Mondo, è rimasto vittima delle ex potenze coloniali occidentali per molti decenni. Raramente un colpo di stato, una rivoluzione, una crisi politica o un collasso economico vissuti in quella parte del mondo hanno avuto luogo senza il coinvolgimento, diretto o meno, dell’Occidente.

Gli arabi, gli artefici di una delle civiltà più grandi e durature della storia umana, non sono innatamente caotici, come Israele e i suoi benefattori occidentali sostengono attraverso la loro implacabile propaganda. In ogni caso, un’affermazione del genere è ormai senza valore, poiché Israele stesso incarna ormai l’instabilità politica e il caos sociale.

Un video virale, datato 7 settembre, mostrava decine di soldati israeliani della Brigata “d’élite” Golani mentre distruggevano la propria base militare. Il video trapelato potrebbe essere liquidato come un incidente isolato se non fosse per il fatto che almeno 10.000 riservisti dell’esercito israeliano hanno dichiarato che non presteranno più servizio nelle loro unità militari se le riforme giudiziarie di Netanyahu saranno confermate. Nel frattempo, centinaia di migliaia di israeliani continuano ad occupare le piazze principali di tutte le città israeliane, chiedendo la fine di quello che percepiscono come un colpo di stato di estrema destra.

Analisti militari israeliani e giornalisti dibattono di questioni politiche e morali che, solo pochi anni fa, sarebbero state considerate inconcepibili: e se l’esercito si rivoltasse contro il popolo? E se il popolo rovesciasse il governo? E se Israele non fosse più una democrazia? In effetti, molti israeliani concordano sul fatto che questo scenario si sia già avverato.

Tra loro, due ex capi del potente servizio di sicurezza interna israeliano, lo Shin Bet. In una lettera, resa pubblica il 31 agosto, hanno esortato il Presidente americano Joe Biden a non invitare Netanyahu alla Casa Bianca. Una tale visita sarebbe vista come una “legittimazione del Colpo di Stato del governo”, hanno scritto, accusando il Premier israeliano di “causare gravi danni” a Israele, in particolare al “rapporto strategico tra gli Stati Uniti e Israele”.

Il compito di promuovere Israele come “l’unica democrazia del Medio Oriente” non è più tanto facile.

Con il crollo del pilastro della democrazia, anche il pilastro della stabilità si sta sgretolando. E senza stabilità, gli investitori, semplicemente, scappano.

La corsa per fuggire dal mercato israeliano è già iniziata. La fuga di capitali, secondo stime ufficiali israeliane, è così estrema da cogliere di sorpresa molti analisti di mercato. Gli investimenti esteri in Israele nei primi tre mesi del 2023 hanno totalizzato un misero 2,6 miliardi di dollari (2,4 miliardi di euro), un calo del 60% rispetto agli anni 2020 e 2022, secondo un recente rapporto pubblicato dal Ministero delle Finanze israeliano, che escludeva il 2021.

Certamente, ciò che sta accadendo allo “stabile” e “democratico” Israele è davvero senza precedenti. La sua attuale vulnerabilità è accentuata dai massicci e rapidi cambiamenti nella mappa politica del Medio Oriente e del mondo. Con l’indebolimento della morsa USA-Occidente sulla regione e su altre parti del mondo, la posizione geopolitica un tempo potente di Israele è sempre più compromessa.

Ciò dovrebbe offrire ai palestinesi l’opportunità di smascherare la falsa democrazia, l’instabilità sociale e l’Apartheid di Israele.

Israele dovrebbe ora essere costretto ad accettare il diritto internazionale che garantisce, in linea di principio, giustizia e libertà per il popolo palestinese e l’inalienabile diritto al ritorno per i suoi rifugiati.

Senza la libertà per i palestinesi, il futuro di Israele è destinato a restare quello di un Paese instabile con istituzioni antidemocratiche, Apartheid permanente e, di fatto, caos perenne.

(Foto:  Amir Terkel, via Wikimedia Commons).