Inseguire un miraggio: in che modo i partiti arabi di Israele legittimano l’apartheid israeliana

Yair Lapid (L), Naftali Bennett (C) e Mansour Abbas. (Foto: tramite Wikimedia Commons).

Palestine Chronicle. Di Ramzy Baroud. Indipendentemente dall’esito delle ultime elezioni israeliane, i partiti arabi non trarranno vantaggi politici significativi, anche se insieme raggiungeranno la più alta rappresentanza di sempre. Il motivo non è da ricercare nei partiti stessi, ma nel sistema politico israeliano che si basa sul razzismo e sull’emarginazione dei non ebrei.

Israele è stato fondato sul presupposto preoccupante di voler essere la patria di tutti gli ebrei, ovunque essi siano – non degli abitanti nativi della Palestina – e su basi cruente, con la Nakba e la distruzione della Palestina storica con successiva espulsione del suo popolo.

Tali esordi non hanno certo favorito l’instaurazione di una vera democrazia, perfetta o imperfetta che fosse. L’atteggiamento discriminatorio di Israele non solo è persistito nel corso degli anni, ma è addirittura peggiorato, soprattutto quando la popolazione araba palestinese è aumentata a dismisura rispetto a quella ebraica tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo.

La deplorevole realtà è che alcuni partiti arabi hanno partecipato alle elezioni israeliane fin dal 1949, alcuni in modo indipendente ed altri sotto l’egida del partito Mapei. Lo hanno fatto nonostante le comunità arabe in Israele fossero state governate da un governo militare (1951-1966) e praticamente soggette, fino ad oggi, all’illegittimo “Regime di emergenza della difesa”. Questa partecipazione è stata costantemente propagandata da Israele e dai suoi sostenitori come prova della natura democratica dello Stato.

Questa è l’unica affermazione che ha funto da spina dorsale dell’hasbara israeliano nel corso dei decenni. Anche se spesso inconsapevolmente, i partiti politici arabi in Israele hanno provveduto il foraggio a questa propaganda, rendendo difficile per i Palestinesi sostenere che il sistema politico israeliano è fondamentalmente sbagliato e razzista.

I cittadini palestinesi hanno sempre discusso tra loro su quali siano i pro e i contro della partecipazione alle elezioni israeliane. Alcuni hanno capito che la loro partecipazione convalida l’ideologia sionista e l’apartheid israeliana, mentre altri hanno sostenuto che astenersi dal partecipare al processo politico nega ai Palestinesi l’opportunità di cambiare il sistema dal suo interno.

Quest’ultima argomentazione ha perso gran parte del suo valore, dato che Israele è sprofondato sempre di più nell’apartheid, mentre le condizioni sociali, politiche e legali dei Palestinesi sono peggiorate. Il Centro Legale per i Diritti delle Minoranze Arabe in Israele (Adalah) riferisce di decine di leggi discriminatorie in Israele che colpiscono esclusivamente le comunità arabe. Inoltre, in un rapporto pubblicato a febbraio, Amnesty International descrive in modo accurato come la “rappresentanza dei cittadini palestinesi di Israele nel processo decisionale… sia stata limitata e minata da una serie di leggi e politiche israeliane”.

Questa realtà esiste ormai da decenni, molto prima del 19 luglio 2018 quando il parlamento israeliano ha approvato la cosiddetta Costituzione dello Stato Ebraico. Questa è stata l’esempio più lampante del razzismo politico e legislativo che ha reso Israele un regime di apartheid a tutti gli effetti.

La costituzione è stata anche la più articolata proclamazione della supremazia ebraica sui Palestinesi in tutti gli aspetti della vita, compreso il diritto all’autodeterminazione.

Coloro che hanno sostenuto che la partecipazione araba alla politica israeliana, in passato, sia servita a qualcosa avrebbero dovuto fare di più che denunciare collettivamente la costituzione, dimettendosi in massa, con effetto immediato. Avrebbero dovuto approfittare del clamore internazionale per convertire la loro lotta da parlamentare a popolare.

Ahimè, non l’hanno fatto. Hanno continuato a partecipare alle elezioni israeliane, sostenendo che se avessero ottenuto una maggiore rappresentanza nella Knesset avrebbero potuto sfidare lo tsunami di leggi discriminatorie israeliane.

Ciò non è avvenuto, nemmeno dopo che la Lista Comune, che ha unito quattro partiti arabi nelle elezioni del marzo 2020, ha ottenuto la più grande affluenza di sempre, diventando il terzo blocco politico della Knesset.

La tanto decantata vittoria storica è culminata in un nulla di fatto perché tutti i partiti ebraici più importanti, indipendentemente dal loro background ideologico, si sono rifiutati di includere i partiti arabi nelle loro possibili coalizioni.

L’entusiasmo che aveva mobilitato gli elettori arabi dietro la Lista Comune ha cominciato a scemare e la lista stessa si è frammentata, grazie a Mansour Abbas, il capo del partito arabo Ra’am.

Nelle elezioni del marzo 2021, Abbas voleva cambiare completamente le dinamiche della politica araba in Israele. “Ci concentriamo sulle questioni e sui problemi dei cittadini arabi di Israele all’interno della Linea Verde”, ha dichiarato Abbas alla rivista TIME nel giugno 2021, aggiungendo che “vogliamo risolvere i nostri problemi”, come a voler dichiarare uno storico distacco dal resto della lotta palestinese.

Abbas si sbagliava, poiché Israele percepisce lui, i suoi seguaci, la Lista Comune e tutti i Palestinesi come ostacoli ai suoi sforzi per mantenere l’esclusivista “identità ebraica” dello stato. L’esperimento di Abbas, tuttavia, è diventato ancora più interessante quando Ra’am ha ottenuto 4 seggi ed è entrato a far parte di una coalizione di governo guidata dal politico di estrema destra e anti-palestinese Naftali Bennet.

Quando la coalizione a giugno è caduta, Abbas ha ottenuto ben poco, a parte dividere il voto arabo dimostrando, ancora una volta, che cambiare la politica israeliana dall’interno è sempre stata pura fantasia.

Anche dopo quel che è accaduto, i partiti arabi in Israele hanno insistito nel voler partecipare ad un sistema politico che, nonostante le sue numerose contraddizioni, ha sempre concordato su una cosa: i Palestinesi sono e saranno sempre il nemico.

Nemmeno i violenti avvenimenti del maggio 2021, in cui i Palestinesi si sono trovati a combattere su più fronti – contro l’esercito israeliano, la polizia, i servizi segreti, i coloni armati e persino i comuni cittadini – sembrano aver cambiato la mentalità dei politici arabi. I centri abitati arabi di Umm Al-Fahm, Lydda e Jaffa sono stati attaccati con la stessa mentalità razzista di Gaza e Sheikh Jarrah, dimostrando che quasi 75 anni di presunta integrazione tra ebrei e arabi sotto il sistema politico israeliano non hanno cambiato la visione razzista nei confronti dei Palestinesi.

Invece di convertire l’energia di quella che i Palestinesi hanno soprannominato “Intifada dell’Unità” per investire nell’unità palestinese, i politici arabi israeliani sono tornati alla Knesset israeliana, come se avessero ancora speranza di riuscire a salvare il sistema politico israeliano, intrinsecamente corrotto.

L’auto-illusione continua. Il 29 settembre, il Comitato elettorale centrale israeliano ha escluso un partito arabo, Balad, dalla corsa alle elezioni di novembre. La decisione è stata infine annullata dalla Corte Suprema del paese, spingendo un’organizzazione araba in Israele a descrivere la decisione come “storica”. In sostanza, suggerendo che il sistema di apartheid di Israele porta ancora in sé la speranza di una vera democrazia.

Il futuro della politica araba in Israele rimarrà terribile se i politici arabi continueranno a perseguire questa tattica fallimentare. Sebbene i cittadini palestinesi di Israele siano privilegiati dal punto di vista socio-economico rispetto ai Palestinesi dei territori occupati, essi non godono di diritti politici o giuridici reali, ma sono soltanto simbolici se non nulli. Rimanendo fedeli alla farsa della democrazia israeliana, questi politici continuano a legittimare l’establishment israeliano, danneggiando così non solo le comunità palestinesi in Israele ma, di fatto, dei Palestinesi ovunque.

Traduzione per InfoPal di Aisha T. Bravi