La Siria teme altri raid. Dal Manifesto.

la Siria teme altri raid
Stefano Chiarini
inviato a Damasco

Telefoni staccati, deserti gli uffici e gli appartamenti frequentati normalmente dagli esponenti di Hamas ed eccezionali misure di sicurezza per scongiurare nuovi possibili attentati israeliani alla loro vita. Queste alcune delle immediate conseguenze delle minacce rivolte alla leadership all’estero di Hamas dalle autorità civili e militari israeliane. «Minacce che abbiamo preso molto sul serio» ci dice una fonte di Hamas del campo Yarmouk, il più grande della Siria dove, alla periferia della capitale, vivono oltre 100.000 profughi palestinesi. Un campo che sembrerebbe piuttosto un quartiere urbano come tanti altri se non fosse per il fatto che lungo Palestine street, un vero e proprio suk dove si può trovare di tutto a buon prezzo, sono tutti originari degli stessi paesi; per i manifesti sui muri sbrecciati delle varie organizzazioni palestinesi, le sedi dei partiti. «Già una volta gli israeliani hanno attentato alla vita del nostro leader Khaled Meshal – ci dice il militante di Hamas – quando nel 1997 per la strade di Amman, gli versarono nell’orecchio del veleno per ucciderlo. Il progetto israeliano di prendersi la Palestina senza più i palestinesi e di eliminare ogni forma di resistenza va avanti dal 1948». «I dirigenti di Hamas all’estero – racconta un altro militante – non hanno nulla a che fare con l’operazione di Gaza e ogni decisione spetta a chi l’ha portata avanti. In ogni caso molti a Gaza pensano che non ci possono fare nulla che già non ci abbiano fatto. È questa la loro debolezza».
Il governo siriano ha protestato per la violazione del suo spazio aereo definita «un’azione provocatoria e stupida» e per il silenzio internazionale sia sulle distruzioni a Gaza, sia sul rifiuto di Tel Aviv a ritirarsi dai Territori occupati. L’indignazione del governo di Damasco è ancor più aspra per il fatto che la Siria aveva recentemente ribadito la sua volontà di arrivare a una pace con Israele sulla base del ritiro di Tel Aviv dalle alture del Golan occupate nel 1967 – con oltre 500.000 profughi ancora in attesa di tornare alle loro case – e che era riuscita, premendo sulla leadership di Hamas all’estero, considerata su posizioni più intransigenti, sia ad ottenere il mantenimento per molti mesi della sospensione degli attacchi in Israele, sia a favorire il raggiungimento dell’intesa – negoziata a Damasco – tra Hamas e Fatah sul documento dei prigionieri che avrebbe potuto sbloccare la situazione. La notizia del raid sulla costa di Latakkia ha suscitato forte apprensione nella capitale siriana. Le misure di sicurezza sono state rafforzate. Triplicate le pattuglie nella centrale piazza Umawyin, dove sorge il palazzo della televisione e alcuni comandi militari. Poco più in alto su una collinetta il monumento al milite ignoto e sullo sfondo il palazzo presidenziale protetto da nuovi sistema d’arma giunti dalla Russia. Ma questo non basta certo a tranquillizzare gli abitanti di Damasco. Le famiglie che al calar del sole, per prendere un po’ di refrigerio, salgono sul monte Kassioum che domina la città, sanno bene che la minaccia israeliana è ad appena una quarantina di chilometri, laggiù sul Jebel sheik, il «monte dello sheik» con il suo copricapo bianco di neve, con dietro le colline occupate del Golan e le prime linee dell’esercito di Tel Aviv.

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