Non ci sono posti sicuri per i palestinesi dei campi profughi

Un uomo palestinese crolla dopo l’uccisione di un parente nel campo profughi di Jabaliya, a Gaza. (Foto: Mahmoud Ajjour, The Palestine Chronicle)

Palestinechronicle.com. Di David Harrop. “Un requisito umano fondamentale è il bisogno di abitare, e quindi di abitare un luogo che ci colleghi a un posto del pianeta a cui apparteniamo, e che ci appartiene” (Jun’ichiro Tanaziki, Elogio delle ombre 1967).

Per i palestinesi che vivono da generazioni, da 74 anni, sotto il giogo dell’occupazione israeliana, si tratta spesso di trovare modi creativi per gestire la tensione tra la persona e lo spazio in cui essa esiste. Questa esistenza ha il potenziale per essere un’esperienza quotidiana di stress, paura e umiliazione.

Sembra che ci sia un paradosso poiché meno qualcuno si sente al sicuro, maggiore diventa il suo bisogno psicologico ed emotivo di un posto sicuro. Ciò è particolarmente vero per i bambini e i giovani palestinesi che vivono nell’ombra costante della violenza, dell’insicurezza e delle minacce esistenziali.

Joronen (Geopolitics 2016) identifica una scala di “precarizzazione” dell’infanzia in base alla quale i bambini che vivono un’occupazione militare ottengono un punteggio elevato in questo indice. Molti bambini palestinesi devono condurre la loro vita quotidiana sentendosi nel completo terrore. Per coloro che vivono nei campi profughi spesso il livello di precarietà infantile è alto.

Una giovane del campo di Dheisheh, a Betlemme, ha ricordato che mentre la sua famiglia e i suoi amici le avevano detto che era stata presente durante alcuni eventi violenti e terrificanti, la sua mente cosciente sembrava averlo represso e non era stata in grado di richiamare i ricordi.

“Ero lì. So che devo esserci stata. I miei genitori mi hanno detto che ero lì quando i soldati sono entrati in casa e quando gli elicotteri con i riflettori erano sopra il campo, ma non ricordo assolutamente niente di tutto ciò”.

Un altro ha detto:

“Vivendo qui non riesco a sentirmi al sicuro nel mondo che mi circonda e non riesco nemmeno a sentirmi al sicuro nella mia testa e nella mia pelle”.

Verosimilmente l’occupazione cerca di schiacciare tutta la resistenza palestinese. La società civile è soggetta a sorveglianza e a censura, e questo spesso si trasforma in livelli di autocensura e autosorveglianza. Questo spesso fa sì che l’occupazione diventi un fenomeno interno. Questo costante processo di auto-esame si introietta, è presente nella psiche quotidiana e si traduce in livelli di ipervigilanza.

Tali dinamiche sono spesso esacerbate dal processo di detenzione e reclusione. Dalle discussioni con i colleghi dell’assistenza sociale che lavorano con minorenni e giovani rilasciati dal carcere, emergono esperienze di bambini terrorizzati sottoposti a interrogatori. Defence of Children International Palestine (DCIP) registra ampie testimonianze di bambini gravemente danneggiati psicologicamente a causa di queste esperienze.

La loro campagna di sensibilizzazione contro l’abuso dei bambini palestinesi da parte dell’occupazione, chiamata “Non c’è modo di curare un bambino”, mette in luce molte testimonianze di giovani che sono stati abusati, violati, arrestati, isolati e gravemente feriti dall’esercito israeliano.

All’interno della comunità continuano ad essere terrorizzati dall’occupazione. Tra il 2016 e il 2018, nel campo profughi di Dheisheh a Betlemme, i giovani sono stati aggrediti da un comandante militare israeliano che si è dato il nom-de-guerre di Capitano Nidal. Ha usato i social media per prendere di mira i giovani e minacciare di inginocchiare una generazione di rifugiati. Non è stata una minaccia vana e durante il periodo della sua sadica gestione molti giovani gravemente disabili hanno subito seri danni.

Queste esperienze di oppressione sono disumanizzanti e molti organismi hanno riconosciuto che si tratta di crimini contro l’umanità. Gli assistenti sociali di strada si impegnano con i giovani in un contro-processo per affrontare tutto questo, e per aiutarli a liberarsi da tale disumanizzazione. Si tratta di una forma di pratica proattiva impegnata.

Tale pratica attinge alla comunanza di queste esperienze e cerca di “depatologizzare”, e quindi di farne emergere la natura pervasiva. Molti citano l’importanza della filosofia di Paulo Freire (Pedagogy of the Oppressed, 1968) nel plasmare e informare la loro pratica. Attingono dalle questioni dell’educazione popolare in termini di sostegno ai giovani per orientarsi nel loro contesto politico di colonizzati e oppressi.

Gran parte della loro attività è incentrata sul coinvolgimento dei giovani in attività collaborative che affrontano e articolano la loro lotta e il loro contesto. Tutte le attività sono incentrate sull’articolazione di una narrazione e attingono da una voce collettiva. Tali riarticolazioni di esperienze soggettive servono a fornire una piattaforma per un’autentica narrazione di liberazione.

Le attività che i professionisti attuano con i giovani comprendono spesso teatro, film, rap, danza, lavori artistici, giornalismo, graffiti, tutti canali per la gestione delle soggettività e per un incremento della consapevolezza politica sia collettiva che individuale.

Prabahker P. sostiene che i rapper e gli artisti hip-hop palestinesi occupano spazi liberatori ed espressivi e che rappresentano un “terzo spazio” critico per i giovani palestinesi.

Ciò non solo consente un luogo di rifugio (e di sicurezza) dalle esperienze oppressive corporee e spaziali dell’occupazione, ma attingendo dalle esperienze e dai testi di rapper afroamericani, come Tupac Shakur, consente ai giovani palestinesi di avere la capacità di riflettere sulle proprie esperienze di oppressione. Attraverso questo mezzo i giovani palestinesi cercano modi per difendere la propria eredità e la propria identità contro coloro che negano loro il diritto di esistere.

Il film del 2018 Palestine Underground (Boiler room Films) segue le vite dei rapper palestinesi e traccia lo sviluppo della loro narrazione e della loro potenza.

L’hip-hop è diventato una voce politicizzata di protesta, mobilitazione ed educazione per la gioventù palestinese priva di diritti civili che riecheggia gli scritti di resistenza e liberazione di scrittori precedenti come Darwish.

In The New Politics of the Community (1999), Patricia Hill Collins discute il concetto di spazi sicuri, che secondo lei sono luoghi critici in cui gli oppressi possono essere liberi di esplorare la natura delle loro realtà e ottenere una prospettiva delle loro esperienze di oppressione strutturale .

Grazie a una borsa di ricerca dell’University College di Dublino, ho potuto visitare la Palestina e parlare con molti partecipanti a tali interventi di assistenza sociale di strada. Molti hanno indicato che l’esperienza di tale impegno non è stata solo terapeutica, in termini di aiuto per elaborare e affrontare il trauma, ma spesso diventa una piattaforma che consente la crescita e lo sviluppo personale. Probabilmente queste sono le opportunità che, per caso o volutamente, l’occupazione cerca di negare loro.

Questo collegamento di teoria e pratica da parte degli assistenti sociali di strada palestinesi rappresenta una prassi, un legame tra teoria e pratica quotidiana che definisce il modo di interazione con i giovani.

Gli assistenti sociali di strada palestinesi, con un’affinità con i giovani e le loro esperienze vissute, portano a un processo di pratica profondamente collaborativo e hanno il potenziale per essere un esempio per la professione di assistente sociale globale. Si cercano modalità per salvaguardare e proteggere i vulnerabili e i perseguitati e per conferire potere agli oppressi.

Traduzione per InfoPal di Stefano Di Felice