Pierre Stambul, co-presidente e portavoce dell’Unione ebraica francese per la pace: “Per fermare Netanyahu servono sanzioni al più presto”

Di Alessandro Barbieri. Intervista a Pierre Stambul, co-presidente e porta voce dell’Unione ebraica francese per la pace.

Il giorno dopo  celebrazione della giornata mondiale delle vittime della Shoah, lei era alla manifestazione a Marsiglia per chiedere il cessate il fuoco in Palestina. Per lei, che è figlio di resistenti al nazifascismo, cosa è significata la commemorazione del 27 gennaio in questa circostanza?

Mio padre fu arrestato e torturato dalla polizia francese nel novembre del 1943. In seguito fu deportato a Buchenwald, in Germania, da dove riuscì a scappare facendo credere ai nazisti che Stambul fosse un cognome rumeno e non ebreo. La famiglia di mia madre, invece, fu in parte sterminata nei campi di concentramento.  Mio padre, Yakov Stambul, faceva parte del gruppo di Manouchian, che il prossimo 22 febbraio Parigi celebrerà con l’accoglimento delle spoglie nel Pantheon. A mio padre dedicheranno una targa nella periferia parigina. Andrò alla cerimonia, alla quale mi hanno invitato, per dire che celebrare gli eroi della resistenza e sostenere il genocidio a Gaza è una contraddizione totale. Così come è un ossimoro dichiararsi antifascisti e votare una legge sull’immigrazione che rigetta i migranti in mare. Per questo, la celebrazione ufficiale del governo francese di quello che è successo durante la seconda guerra mondiale è, per certi versi, oscena. Perché commemorare la Shoah senza trarne alcun insegnamento non ha senso, visto che, da anni, il governo francese produce delle leggi per far progredire l’estrema destra e i neofascisti. E, ancor peggio, è identificare i gli ebrei con Israele, dato che quello che sta commettendo Netanyahu si chiama genocidio e che i dirigenti israeliani sono, in questo momento, ideologicamente più vicini ai nazisti che hanno commesso la Shoah, piuttosto che alle vittime che l’hanno subita. Perciò noi sosteniamo il popolo palestinese perché siamo per la convivenza nell’uguaglianza del diritto, e siamo contro i crimini di guerra e il colonialismo.

Papa Francesco ha chiesto pochi giorni fa, in un intervista a La Stampa, “il cessate- il fuoco immediato, perché siamo sull’orlo dell’abisso” e di applicare “gli accordi di Oslo per una soluzione a due stati”. Siete d’accordo?

Sul cessate il fuoco al più presto siamo certamente d’accordo con il Pontefice, su Oslo la questione è complessa.  Gli accordi di Oslo, infatti, sono stati un gigantesco inganno, visto che al momento della firma c’erano 150mila coloni e oggi ce ne sono più di 200mila. A Oslo è stato stipulato soprattutto l’apertura dei checkpoint e quella che chiamano “la cooperazione sulla sicurezza”, e cioè l’obbligo per l’occupato di garantire la sicurezza dell’occupante. Oggi ne vediamo le conseguenze, perché l’Autorità Palestinese è diventata semplicemente un potere di collaborazione con il governo israeliano. Tutte le questioni fondamentali come il futuro stato palestinese, la situazione dei rifugiati e dei prigionieri e l’assetto dello colonie sono state ignorate. Gli accordi di Oslo si sono dimostrati inutili. Ne vediamo oggi il risultato, trent’anni dopo. La soluzione a due stati è stato un mezzo per la comunità internazionale di lasciar fare l’interesse dell’oppressore coloniale per trent’anni.

Voi dell’Unione ebraica francese per la pace che soluzione chiedete?

Oggi l’ordine del giorno è l’uguaglianza del diritto tra i sette milioni di palestinesi e i sette milioni di ebrei israeliani che vivono dal Mediterraneo al Giordano, e cioè lo smantellamento del sionismo e non la separazione. Il sionismo è stato dalla sua nascita una teoria della separazione, dunque la soluzione non è certamente quella. In più chiunque vada in Cisgiordania si può chiedere, vendendo i coloni e i muri di separazione, dove possa esistere lo stato palestinese. I palestinesi chiedono solo una cosa, che il diritto internazionale sia applicato. Il diritto internazionale significa la libertà, ovvero la fine dell’occupazione, la distruzione dei muri, la fine del blocco di Gaza e la liberazione dei prigionieri. Significa anche l’uguaglianza del diritto per tutti gli abitanti della regione, qualunque sia la loro origine, la lingua e la religione. E infine significa la giustizia, perché il crimine fondatore del 1948 è stato l’espulsione dei palestinesi e loro chiedono che rifugiati possano ritornare nella loro terra e che i criminali di guerra sia giudicati, e in questo momento ce ne sono molti. La questione statale viene dopo il riconoscimento di questi diritti fondamentali, di libertà uguaglianza e giustizia. Quando saranno riconosciuti si potrà negoziare la questione statale. Se si fa il contrario, invece, si fa il gioco dell’occupante. Se si fa il paragone con il Sud Africa, Mandela aveva posto tre condizioni: ogni persona  ha diritto a votare, il Sud Africa è uno ed indivisibile e va riconosciuto che l’apartheid è un crimine. In Palestina la pace sarà l’equivalente di ciò. Ovvero riconoscere che c’è stato un crimine fondatore nell’espulsione della maggior parte dei palestinesi e quindi una riparazione. La questione statale viene dopo, è innanzitutto il diritto che va ristabilito.

In questi giorni si sta provando a negoziare una tregua, su pressione degli Stati Uniti. Lei pensa che, dopo quattro mesi di guerra, sia cambiato qualcosa nel rapporto tra Israele e i paesi occidentali, al posto dell’iniziale “sostegno incondizionato”?

E’ evidente che l’occidente continua a sostenere Netanyahu, ne è la prova la reazione assolutamente scandalosa di questi paesi quando Israele, in linea con una piena propaganda di guerra, ha accusato l’UNRWA di essere coinvolta nell’attacco terroristico del 7 ottobre, senza che l’indagine interna dell’ONU fosse nemmeno conclusa. Immediatamente gli Stati Uniti, l’Australia, il Canada, la Gran Bretagna, la Germania, la Francia, la Finlandia e altri paesi hanno seguito questa propaganda e hanno congelato i fondi destinati all’UNRWA. Così la comunità occidentale, oltre a portare avanti il sostegno a dei criminale di guerra, non si rende conto che sta distruggendo ciò che rimane del diritto internazionale. Perché se dei paesi che hanno regolarmente accusato, a giusto titolo, la Russia, la Cina e la Siria di violare tutti i diritti umani, poi sostengono un genocidio, vuol dire che il diritto internazionale non esiste più. E restare su queste posizioni avrà delle conseguenze enormi, con il rischio di un allargamento del conflitto.

Dunque, finche non si proverà a fermare l’avanzata israeliana, e ciò significa una mozione di cessate il fuoco del Consiglio di sicurezza dell’Onu e la fine dell’invio di armamenti, Netanyahu continuerà la guerra. Il sionismo fa questo da 120 anni e, visto che non è punito, avanza. Pertanto, fino a quando non si capirà che per fermarlo serve sanzionarlo, continuerà nei suoi scopi. Non credo, perciò, a una tregua in questo momento. Ci sarà soltanto in seguito a una decisione politica degli Stati Uniti e dell’Occidente di fermare Israele, volontà che in questo momento non c’è.

Inoltre ci sono due voci abbastanza affidabili che corrono in Medio Oriente. La prima è che una soluzione sia di mettere a capo di Gaza, con il consenso di Israele e con milioni di dollari di finanziamento, Mohammed Dahlan, un corrotto e uomo degli Emirati Arabi Uniti, e anche colui che nel 2006 in nome di Al Fatah aveva cercato, senza successo, di fare un colpo di stato contro Hamas. L’altra voce, molto seria in questo momento, è che gli israeliani stiano cercando di spingere la popolazione della Striscia di Gaza verso Rafah, per forzare l’Egitto ad aprire la frontiera. E’ evidente che sarebbe una situazione drammatica e di ulteriore tensione con l’Egitto. Al-Sisi non vuole l’ingresso dei palestinesi, ma Netanyahu pensa che l’Egitto sia talmente debole da poter imporre la sua soluzione.

Voi dell’UJFP siete presenti a Gaza per consegnare gli aiuti umanitari e aiutare la popolazione?

Sì abbiamo due squadre a Gaza che si occupano della ricezione e della distribuzione degli aiuti umanitari, coordinate da Abu Amir. Tutti i giorni sul nostro sito raccontiamo ciò che è stato fatto, dalla distribuzione dei viveri, delle tende, alla costruzione delle toilette. In novembre abbiamo lanciato una colletta che ha avuto un enorme successo, abbiamo ricevuto dei fondi anche da associazioni amiche e siamo riusciti a inviare tutto a Gaza. Abbiamo ancora aiuti per due mesi e speriamo che la guerra finisca al più presto. Non siamo un associazione umanitaria, ma in questo momento si tratta di aiutare la popolazione a sopravvivere il tempo che il conflitto si fermi e una delegazione internazionale arrivi.