Rassegna stampa del 23 marzo.

Rassegna stampa del 23 marzo.

A cura di Chiara Purgato.

http://www.ilmessaggero.it

Gerusalemme, Netanyahu non cede: non è una colonia, è la nostra capitale

ROMA (23 marzo) – Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, intervenendo ieri sera a Washington all'annuale riunione dell'Aipac, la più importante lobby ebraica d'America, ha affermato che «Gerusalemme non è una colonia, ma la capitale di Israele. Il popolo ebraico ha costruito Gerusalemme tremila anni fa, e il popolo ebraico continua a costruirla ora». 

Chiaro il riferimento di Netanyahu ai nuovi insediamenti israeliani a Gerusalemme Est. «Gerusalemme non è un colonia – ha ribadito – E' la nostra capitale». Oggi Netanyahu incontrerà alla Casa Bianca il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama.

«Con gli Usa dissensi tra amici». «Dissensi fra amici»: così il segretario del governo israeliano Zvi Hauser ha definito oggi le divergenze di opinione su Gerusalemme est emerse anche ieri con i dirigenti americani ai margini della visita a Washington di Netanyahu. In un' intervista a radio Gerusalemme, riferendosi anche agli incontri con il vicepresidente Joe Biden e con il segretario di Stato Hillary Clinton, Hauser ha rilevato che l'accoglienza riservata a Netanyahu è stata «calorosa». Circa lo status politico di Gerusalemme est, Hauser ha ricordato che i dissensi fra Israele e Usa risalgono all'indomani della “Guerra dei sei giorni”, del 1967. «Da allora la loro posizione di fondo non è cambiata, e nemmeno la nostra» ha detto. Netanyahu è dunque determinato a portare avanti la politica perseguita dai governi israeliani precedenti e a costruire nuovi progetti a Gerusalemme «non solo per gli ebrei – ha precisato Hauser – ma anche per gli arabi». 

 

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Netanyahu sfida Obama, scontri in Cisgiordania

Washington, 23-03-2010

“Dissensi fra amici”. Il segretario del governo israeliano Zvi Hauser definisce così, ad una radio israeliana, le divergenze di opinione su Gerusalemme est emerse anche ieri con l'amministrazione americana ai margini della visita a Washington di Benyamin Netanyahu. Ma a poche ore dall'incontro con il presidente Barack Obama le parole del primo ministro israeliano sulle colonie e su Gerusalemme causano nuova irritazione alla Casa Bianca e provocano un'eco enorme sui media internazionali.

“Gerusalemme non è un insediamento, è la nostra capitale”
A Washington, nel corso dell'assemblea annuale dell'AIPAC (American Israeli Public Affairs Committee), la principale lobby ebraica negli Stati Uniti, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha respinto le critiche internazionali all'annuncio del piano per la costruzione di
1600 nuovi alloggi a Gerusalemme est. “Le illazioni fatte contro lo stato di Israele devono trovare fondamento nei fatti”, ha aggiunto il premier.  Gerusalemme, ha detto Netanyahu “non è una colonia, è la nostra capitale. Il popolo ebraico ha costruito Gerusalemme tremila anni fa, e continua a costruirla ora”.

Eco enorme nel mondo arabo, attrito con gli USA
Le parole del premier israeliano guadagnano rapidamente l'apertura dei quotidiani di tutta la regione mediorientale: al Jazeera ha aperto molte edizioni del suo telegiornale con un servizio da Washington che ricorda come all'AIPAC poco prima avesse parlato Hillary Clinton, per la quale “lo status quo è insostenibile per tutte le parti in causa: promette soltanto nuove dosi di violenza”. Per questo il segretario di Stato americano aveva invitato le parti a riprendere i “colloqui indiretti”, unica strategia al momento possibile per rilanciare un possibile percorso di pace tra israeliani e palestinesi. “Il cammino da seguire è chiaro: due Stati e due popoli che vivono fianco a fianco” aveva detto. E se questo è l'obiettivo, costruire nuove case israeliane a Gerusalemme est “danneggia la fiducia reciproca, mette a rischio i colloqui indiretti”, e indebolisce la capacità Usa di giocare “un ruolo unico e essenziale” nel processo di pace.

Scontri
Violenti scontri tra coloni israeliani e palestinesi si sono registrati questa mattina nel nord della Cisgiordania. Secondo quanto riporta l'agenzia di stampa araba 'Kuna', alcuni coloni avrebbero tentato di entrare nei campi coltivati da agricoltori palestinesi provocando una sassaiola tra le due parti. I palestinesi accusano i coloni di aver tentato di impadronirsi dell'area che si trova vicino al villaggio di Sanjal dove sono presenti al momento sei colonie ebraiche. Sempre secondo la 'Kuna', negli ultimi due giorni almeno quattro palestinesi sarebbero stati uccisi dai militari israeliani, mentre diversi villaggi avrebbero subito attacchi da parte dei coloni in Cisgiordania.

 

La minaccia iraniana
Il programma nucleare iraniano secondo Netanyahu rappresenta “una minaccia” nei confronti della quale Israele si attende “una risposta rapida e decisiva da parte della
comunità internazionale”, riservandosi peraltro il diritto a “difendersi da solo”.
All'AIPAC, la più grande lobby ebraica d'America, Netanyahu ha sottolineato che
Israele si attende che “la comunita' internazionale agisca in modo rapido e decisivo contro la minaccia nucleare iraniana”. “Ma noi – ha aggiunto – ci riserveremo sempre il diritto di
difenderci da soli”. Anche su questo terreno, insomma, al di là della sintonia delle dichiarazioni ufficiali, sembrano affiorare divergenze con l'amministrazione Obama.

 

http://www.lastampa.it/

Usa, passi falsi in Medio Oriente

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Speriamo che dai colloqui di Washington tra israeliani e americani esca qualcosa di buono, capace di rianimare un processo di pace in condizioni simili al Lazzaro del Vangelo di Giovanni. Barack Obama è uomo di grande qualità e straordinariamente tenace, come ben attesta lo storico successo ottenuto sulla riforma sanitaria. Ma quello dell’ordine mediorientale è un tema ugualmente intrattabile e dall’altrettanto storica portata, per affrontare il quale il Presidente degli Usa si troverà a condurre una battaglia persino più solitaria.

Tra le tante politiche pubbliche, la politica estera è per definizione quella il cui successo non dipende totalmente dal governo che la elabora e la mette in opera, neppure quando si tratta della superpotenza americana. A farla naufragare o, meno drammaticamente, a procrastinarne e attenuarne gli effetti, non concorrono solo gli eventuali abbagli analitici, o le «resistenze» di avversari e rivali (che evidentemente giocano ognuno la propria partita), ma talvolta le mosse degli stessi alleati. L’inopportuna decisione israeliana di consentire nuovi insediamenti ebraici a Gerusalemme Est è tra queste. Mentre la condanniamo, occorre però riconoscere che essa è frutto di un’analisi convinta innanzitutto della debolezza della leadership e della crescente solitudine americana in Medio Oriente.

La sensazione è che gli Usa stiano perdendo innanzitutto la presa sugli alleati nella regione: non solo gli israeliani, ma anche la Turchia (nonostante proprio da Ankara Obama avesse inaugurato il suo primo viaggio europeo) e persino l’Iraq, che è sempre più impaziente di liberarsi dei soldati di Petraeus.

Se Netanyahu sfida così apertamente Obama, è perché sa che l’America non è in grado né di sanzionare seriamente Israele né di cambiare significativamente per il meglio l’orizzonte strategico in cui Israele vive. Da un lato, come dovette pubblicamente ribadire Hillary Clinton appena 48 ore dopo una dura sfuriata nei confronti delle autorità israeliane, «l’impegno americano a favore della sicurezza di Israele» prescinde da qualunque contingente divergenza di opinione, anche aspra (esempio di quello che gli arabi chiamano «doppio standard»). Dall’altro, l’amministrazione Obama non è riuscita a far rallentare di un solo giorno la prospettiva di un Iran nucleare, vero e proprio incubo della dirigenza israeliana. Anzi, l’aver trascurato di impegnare più frontalmente l’Iran sulla questione dei diritti umani e delle elezioni truccate a favore della sola issue nucleare ha finito col fornire a Mosca e Pechino uno spazio sempre maggiore in Medio Oriente, trasformandoli di fatto nei protettori degli ayatollah. Questo è lo scenario che contemplano anche gli arabi, che dopo il «discorso del Cairo» (tanto ispirato quanto audace) si aspettavano molto di più dal presidente Obama e che invece vedono gli «altri» (israeliani, iraniani e turchi) acquisire sempre più peso e autonomia a scapito loro. Serve un cambio di rotta rapido e incisivo, un segnale che «compensi» il ritiro delle truppe dall’Iraq e sia in grado di chiarire a tutti (alleati, avversari e neutrali) che gli Stati Uniti hanno intenzione di tornare a esercitare una leadership effettiva nel Medio Oriente. 

 

 

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23-03-2010

Giocare col fuoco a Gerusalemme e scottarsi a Ramallah

di Avi Dichter

 

Gerusalemme è il cuore della nazione ebraica. Eppure, nonostante il suo status di più sacro sito ebraico, lo Stato d’Israele ha fatto del Monte del Tempio di Gerusalemme un luogo di libertà religiosa: un fenomeno che non si era registrato per secoli, né sotto gli ottomani, né sotto gli inglesi e nemmeno sotto i giordani.
Ciò nondimeno esiste oggi una fazione di estremisti musulmani che istiga alla violenza sul Monte del Tempio, nel tentativo di dissuadere i fedeli ebrei dal recarsi al (sottostante) Muro Occidentale (“del pianto”) e per creare ad arte un’atmosfera di conflitto nella città e nell’intera regione.
A peggiorare le cose, questi facinorosi godono dell’appoggio dell’Autorità Palestinese, che incoraggia tale conflitto come evidente diversione dal suo perdente scontro interno contro Hamas nella striscia di Gaza. Anziché affrontare i veri problemi che ha in casa con Hamas, il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) dedica tempo e risorse a fomentare un pericoloso gioco a Gerusalemme. La sua riluttanza ad fronteggiare le vere minacce interne per condurre piuttosto una superflua guerra religiosa e demagogica non farà altro che compromettere la stabilità del suo stesso governo in Cisgiordania, come già accaduto nella striscia di Gaza. Il cinismo dell’Autorità Palestinese combinato ai tentativi di Israele di garantire la libertà religiosa toccano un tasto inquietante. Mi fanno venire in mente ciò che disse il compianto filosofo americano Eric Hoffer: “Quelli che mordono la mano che dà loro da mangiare solitamente sono gli stessi che leccano lo stivale di chi li prende a calci”.
Se non verranno fermate, le manifestazioni violente al Monte del Tempio possono solo portare all’infelice scenario di Israele costretto a far rispettare la legge in maniera tale da rischiare di violare la libertà di religione di alcuni. Uno scenario che tuttavia va contro il tessuto stesso della democrazia israeliana. Pertanto Israele continuerà a proteggere la libertà di religione nella nostra capitale per i fedeli di tutte le fedi. Allo stesso tempo, però, il mondo deve capire chiaramente che Gerusalemme non tornerà alla condizione dei confini pre-’67 (che la spaccavano a metà come una Berlino mediorientale).
Tuttavia, benché questa sia una politica chiara e di importanza strategica che sta al cuore del più vasto consenso in Israele, il governo israeliano deve essere più sensibile sul piano tattico nei progetti edilizi a Gerusalemme: cosa essenziale per non compromettere la già fragile fiducia sulla questione di Gerusalemme (posto che vi sia della fiducia, in effetti). Gesti come l’annuncio da parte del governo di nuove unità abitative all’inizio di questo mese sono l’esatto esempio di una gaffe grossolana che ha messo in imbarazzo non solo i nostri alleati americani, ma anche molti israeliani, con effetti controproducenti.
Prima che vengano anche solo concepiti dei negoziati attorno a Gerusalemme, il livello di fiducia tra Israele e palestinesi deve elevarsi come mai prima d’ora, cosa che può essere ottenuta grazie a misure volte a costruire fiducia, e che sarà possibile solo dopo che saranno risolte le questioni di Gaza e Cisgiordania, dei blocchi di insediamenti e della Valle del Giordano.
Al momento ci troviamo di nuovo sul punto di iniziare colloqui, questa volta attraverso un mediatore. Sicché, dal momento che ci troviamo alla vigilia dell’avvio di un nuovo round di negoziati, è cruciale che questa volta si trovi una soluzione efficace, e per questo dovremmo tenerci tutti alla larga da gioco fin troppo familiare dello scaricabarile. Credo che l’unico modo per raggiungere questo obiettivo sia di condurre negoziati diretti, con il sostegno americano.
Navigati esponenti dell’Autorità Palestinese tra cui Muhammad Dahlan convengono che coinvolgere terze parti come mediatori intralcerà soltanto il processo. Per cui, ripeto: l’unica strada in assoluto verso un accordo durevole sono i negoziati diretti. Qualunque reale soluzione alle questioni nella nostra regione, con i palestinesi e soprattutto a Gerusalemme, può e deve essere risolta solo attraverso colloqui diretti. Sarà difficile, ci vorrà tempo, potrebbe essere necessario persino un miracolo: ma per fortuna nella città santa i miracoli sono sovente possibili.

 

 

 

 

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Ban Ki-Moon giudica “inutile ed inaccettabile” il blocco israeliano a Gaza

Il Segretario Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) Ban Ki-Moon ha giudicato “inutile ed inaccettabile” il blocco che Israele ha imposto alla Striscia di Gaza, aggiungendo che tale situazione ha acuito la sofferenza dei palestinesi.

“Il blocco imposto (da Israele) sulla Striscia di Gaza è inutile ed inaccettabile (…) il cerchio israeliano aumenta la sofferenza e indurisce la vita della popolazione”, ha affermato il Segretario Generale di ritorno dal progetto di accoglienza dell’ONU a Jan Yunis (sud) Gaza, che prevede la costruzione di varie strutture, tra cui 150 case ed un mulino di farina presumibilmente approvate dal governo israeliano.

Il diplomatico ha anche aggiunto che “tale politica sta indebolendo i moderatori ed animando gli estremisti, assieme al contrabbando ed al commercio illegale”.

Ki-Moon ha manifestato tutta la sua preoccupazione rispetto alla situazione dei palestinesi, “è frustrante vedere questa distruzione e sapere che non si può ricostruire”.

“Condanno tutte le azioni militari che portano alla morte gli israeliani ed i palestinesi. I conflitti si possono risolvere solo attraverso i negoziati”.

Il massimo rappresentante dell’ONU no prevede incontri con il governo del movimento islamista Hamás che rifiuta i principi dell’organizzazione, dell’Unione Europea, degli Stati Uniti e della Russia.

La rinuncia alla violenza, il riconoscimento dello Stato di Israele e l’accettazione degli accordi con esso firmati dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) sono le tre richieste del Cartello per l’accettazione di Hamás, che ha vinto le ultime elezioni legislative palestinesi nel 2006.

Il Segretario Generale dell’ONU si è riunito con i rappresentanti di diverse agenzie delle Nazioni Unite, e ha realizzato visite a progetti umanitari.

Ban ha pure ricordato l’illegalità delle comunità israeliane a Gerusalemme Est ed in Cisgiorndania, ed ha chiesto alla milizia miliare palestinese di “smettere di lanciare missili contro località vicine allo stato di Israele”.

400 mila palestinesi, per la maggior parte civili, sono morti in conseguenza all’offensiva militare israeliani dal dicembre del 2008 al gennaio del 2009 conosciuta come Piombo Fuso. Tale attacco al territorio palestinese ha causato gravi danni materiali alla nazione.

La visita del Segretario Generale in Israele e nelle aree palestinesi coincide con quella dell’inviato speciale degli Stati Uniti George Mitchell, che si riunirà nei prossimi giorni con le autorità israeliane.

 

http://www.corriere.it/

COLPITA UNA CASA CHE, SECONDO ISRAELE, NASCONDEVA UN LABORATORIO DI ARMI

Raid israeliano a Gaza, quattro feriti

Netanyahu in Usa: «Nessuna tensione, solo dissenso tra amici». Clinton: «Israele faccia scelte coraggiose»

GAZA – Quattro palestinesi, tra cui una donna, sono rimasti feriti nella notte in un raid aereo israeliano nella Striscia di Gaza. Lo hanno riferito fonti palestinesi e israeliane. I quattro sono rimasti leggermente ferite dalle schegge di un missile lanciato contro una casa. Secondo un portavoce militare israeliano, l'abitazione nascondeva un laboratorio di armi. L'esplosione ha danneggiato anche tre case vicine. L'esercito israeliano ha precisato che il raid era una reazione al lancio di missili da Gaza lunedì, rivendicata dal Fronte democratico per la liberazione della Palestina.

NETANYAHU A WASHINGTON – Il premier israeliano Benjamin Netanyahu si è soddisfatto dai primi colloqui con l'amministrazione americana, tra cui quello con il segretario di Stato Hillary Clinton, e considera «dissensi tra amici» le recenti tensioni con gli Usa. Lo ha reso noto il segretario generale del governo, Tzvi Hauser. Lunedì sera, Netanyahu, nella riunione dell'Aipac, la principale lobby ebraica negli Stati Uniti, ha detto tra l'altro che è fiducioso «nel prosieguo dell'amicizia» con gli Usa. In serata Netanyahu incontrerà il presidente Barack Obama. Netanyahu ha sottolineato nel suo discorso che «Gerusalemme non è un insediamento, è la nostra capitale» e che Israele vuole che i palestinesi siano «nostri vicini, che vivano liberamente», rivolgendo un appello al presidente dell'Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, affinché «venga e negoziare la pace». In un intervento pronunciato poche ore prima, Clinton aveva esortato Israele a compiere scelte «difficili ma necessarie».

 

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M.O.: raid israeliani a nord della citta' di Gaza, 5 feriti

Gaza, 23 mar. – (Adnkronos/Dpa) – Cinque palestinesi sono rimasti feriti la notte scorsa nel corso di un raid israeliano contro una zona situata a nord della citta' di Gaza. L'operazione militare e' scattata poche ore dopo la rivendicazione da parte di militanti del Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina del lancio di un razzo di fabbricazione artigianale contro la parte meridionale del territorio israeliano.

 

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Le alture del Golan e i negoziati tra Siria e Israele

Nel corso della sua recente visita ufficiale a Damasco, il presidente italiano Giorgio Napolitano ha auspicato, in un colloquio con la controparte siriana Bashar al-Assad, che lo Stato di Israele restituisca il territorio delle Alture del Golan alla Siria, come base di partenza per il negoziato che dovrebbe sancire un accordo di pace tra i due Paesi. 

Quello del Golan, in effetti, è un tema più che scottante, intorno al quale ruota il destino di un eventuale accordo tra Damasco e Tel Aviv. Si tratta di una parte di territorio ufficialmente annessa dal governo israeliano nel 1981, a seguito della sua occupazione, avvenuta durante la cosiddetta Guerra dei 6 giorni, nel 1967. La posizione del Golan è strategica sotto molti punti di vista, essendo un’area estremamente fertile rispetto al resto del territorio circostante, e assicurando il controllo di una fonte idrica fondamentale, quale il Mar di Galilea (anche conosciuto come Lago di Tiberiade).

Già dal 2008 la Turchia, tramite il suo primo ministro Recep Tayyip Erdogan, aveva fatto da mediatore di una serie di colloqui indiretti tra Siria e Israele per la discussione dei termini di un trattato di pace che normalizzasse le relazioni tra questi due Paesi, formalmente ancora in stato di guerra tra di loro. Sebbene i negoziati fossero stati bruscamente interrotti da Ankara stessa, a seguito dell’operazione militare israeliana nella Striscia di Gaza tra il dicembre 2008 e il gennaio 2009 (la cosiddetta operazione “Piombo Fuso”), proprio in queste ultime settimane lo stesso governo turco avrebbe annunciato la nuova disponibilità a far sedere intorno al tavolo dei negoziati le due controparti, nella speranza di poter trovare un accordo. 

In quest’ottica si inserisce il messaggio del Presidente italiano Napolitano, che ha ricordato come sarebbe imprescindibile la restituzione dell’amministrazione sul territorio del Golan al governo siriano, il quale continua a rivendicarlo come appartenente alla propria giurisdizione.

Lo Stato di Israele è attualmente in difficoltà sul fronte diplomatico e si trova quanto mai isolato, proprio a causa della sua politica di espansione degli insediamenti (come sta accadendo a Gerusalemme Est) e, dall’altro lato, di intransigenza e chiusura nei confronti della possibile cessione di territori precedentemente occupati, come appunto nel caso del Golan. Israele non ha mai definito ufficialmente e definitivamente i propri confini, ragione per cui sarebbe difficile, viste le attuali condizioni, arrivare ad un qualsiasi accordo di pace con uno Stato confinante come la Siria, timoroso di possibili nuove espansioni di Tel Aviv e, comunque, non disposta a riconoscere l’annessione di una porzione di territorio che prima era sotto il controllo di Damasco. 

Lo stesso presidente siriano Bashar al-Assad ha dichiarato la settimana scorsa, a seguito dell’incidente diplomatico tra Israele e Usa per l’annuncio di Netanyahu di voler costruire 1.600 nuove case a Gerusalemme Est, che con l’attuale forza governativa israeliana è pressoché impossibile arrivare a un accordo che possa essere ritenuto accettabile da Damasco.

Nonostante gli sforzi della Turchia in tal senso, vi è però da notare come anche Ankara sia arrivata, nell’ultimo anno, ad avere una posizione molto più critica nei confronti di Israele, dando vita a momenti di vera e propria tensione diplomatica. Nello stesso tempo, le relazioni tra la Turchia e la Siria migliorano di anno in anno, sebbene i due Paesi fossero arrivati sull’orlo di una guerra solo dieci anni fa, nel 1998. Questa politica regionale turca produce più di un sospetto negli ambienti israeliani e contribuisce all’irrigidimento attuale delle posizioni del governo di centro-destra guidato da Netanyahu. 

La questione del Golan, in questo modo, rimane sulle agende dei possibili accordi tra Siria e Israele, ma verosimilmente non potrà essere risolta nel breve termine, considerando anche l’importanza dal punto di vista economico che tale territorio riveste per Israele: da qui proviene circa il 50 per cento di acqua e di alcuni frutti (come le pere) di tutto il mercato interno israeliano, e qui si concentra circa il 40 per cento di tutto il bestiame destinato al mercato israeliano, solo per fare due esempi. In una terra così scarsa di risorse idriche come quella mediorientale, le Alture del Golan rappresentano un valore inestimabile per chiunque le controlli.

 

http://www.dazebao.org/news/index.php

Suad Amiry: il calvario delle donne palestinesi

MARTEDÌ 23 MARZO 2010 10:52

ROMA – Non se ne parla quasi mai quando si affronta la “ questione palestinese. Le cronache ci raccontano di lunghe trattative con gli israeliani, di bombardamenti, morti, stragi, di insediamenti dei coloni nei territori palestinesi, delle privazioni anche materiali di un popolo .Ma la questione sociale e in particolare i riflessi di una situazione drammatica sulla vita delle persone rimangono in secondo piano.

 

In particolare la condizione delle donne è praticamente ignorata dai media. Ne parliamo in questa intervista con Suad Amiry' una architetto palestinese, fondatrice e direttrice del  Riwaq Center for Architectural Conservation a Ramallaah. Nel 2003 pubblica il suo primo libro “ Sharon e mia suocera”, nato da una risistemazione di email personali scritte nel 2001 durante l'assedio Israeliano al quartier generale di Arafat a Ramallah. Con uno stile semplice e ironico, racconta sfatando stereotipi e vittimismo, il quotidiano calvario che una donna colta e spiritosa  vive nella Palestina occupata. Vincitrice del premio Viareggio nel 2004, recentemente ha pubblicato “Niente sesso in città” (2007) e l'ultimo romanzo-reportage“Murad Murad” (2009).

Oltre ad essere architetto e scrittrice lei è anche una donna impegnata  politicamente…

Quando penso a  me stessa  mi identifico sempre con la generazione del OLP, un movimento che attrasse persone da tutte le classi, professionisti, intellettuali e chiamò le donne alla partecipazione.  Noi non abbiamo vissuto solo una rivoluzione politica, ma anche e soprattutto sociale. Appartengo ad una generazione che è veramente secolare, sfortunatamente ho sentito che con le elezioni di Hamas questo movimento ha fallito nel suo programma di laicità. Ho speso trenta anni della mia vita combattendo contro la stereotipizzazione del popolo palestinese. Ecco, con Hamas mi è parso che ne avrei dovuti spendere almeno altri trenta. Se me ne restano ovviamente!

In che senso nel suo libro “Niente sesso in città” parla di una “Palestina climaterica”?
La menopausa è per la donna un età problematica. Vai incontro a molti cambiamenti, nel tuo corpo e nelle tue emozioni. Inizi a perdere il controllo, ti senti confusa, depressa. Ecco io credo che l'OLP, che ha governato la Palestina per 42 anni, con la vittoria di Hamas nel 2006 non ha solo perso il potere, ma e' diventata un organizzazione confusa, che non sa dove sta andando, che ha perso fiducia in sé stessa e non si sente più “attraente”. Nel mio libro il tema della menopausa simboleggia sia la perdita di potere e sicurezza di Fatah, sia l'oppressione sulla società palestinese della terribile agenda sociale di Hamas.

Agenda sociale che colpisce in particulare modo le donne. Ritiene che sia cambiata negli anni la posizione della donna?
Io personalmente  non posso lamentarmi di essere discriminata come donna, non posso dire che negli uffici non venga presa seriamente in quanto donna.  La questione innanzi tutto e' che non c'è una tipica donna palestinese, dipende dalla classe sociale e dal livello di istruzione.  Ma anche le donne rurali, venti anni fa erano molto più liberali di quanto lo sono oggi.  Dalla prima e seconda intifada le donne hanno pagato un alto prezzo. Quando c'è povertà il lavoro va agli uomini, quando ci sono i check point i genitori hanno paura di mandare le loro figlie in giro, e quindi anche a scuola. Uscire diviene pericoloso, rimani a casa, non studi. E cosa fai? Ti sposi prima. Ecco il deterioramento dell'economia e dell'occupazione, in tal modo si è riflettuto principalmente sulle donne, è a loro che è stato tolto di più.

Spesso  per spiegare le origini del consenso di Hamas ci si riferisce ad una maggiore disponibilità economica e alla presenza sul territorio con  strutture assistenziali. Lei crede sia  abbastanza per spiegare la vittoria?
La questione è che con Oslo c'era un chiaro programma politico che prevedeva il riconoscimento di Israele e  la creazione di uno stato palestinese. Credo che Hamas abbia vinto perché si e' presentato nel momento in cui l'OLP ha fallito nel suo programma di creare uno Stato. Ora la comunità internazionale si preoccupa che Hamas non riconosce Israele, ma Arafat aveva riconosciuto Israele e non è stato aiutato nella costruzione di uno Stato palestinese. 

Pensa che ci sia un modo per sottrarre il potere ad Hamas?
Se venisse una soluzione politica dalla comunità internazionale, l'OLP riguadagnerebbe consenso. Non vi è altra soluzione se non un’iniziativa di pace che per noi  significa lavoro, istruzione, movimento. Pace vuol dire sviluppo, vuol dire creare una nostra propria economia che Israele non ci sta permettendo di avere.

Cosa significa per lei vivere sotto occupazione,  in un territorio continuamente interrotto dai check point?
Israele ha davvero cambiato la nostra concezione del tempo mettendo check-point ovunque. Se tu devi mettere cosi tanta energia per andare da qualche parte, non ci vuoi più andare.  Da piccola andavo a Nablus ogni giorno, ora non ci vado da tre anni. Non possiamo incontrarci e dimostrare insieme perché non ne abbiamo la forza. Utilizziamo tutta l'energia per noi stessi, per sostenerci quotidianamente e non collassare. L'occupazione ha sconnesso le persone in questo modo, ci ha reso immobili. Io ti sembro normale, ma non lo sono, anche nei miei viaggi in Italia, ad esempio quando mi sposto per raggiungere un appuntamento, porto con me un’ansia dentro che le persone non capiscono.

 

http://www.adnkronos.com/IGN/News

M.O: Hamas saluta espulsione diplomatico israeliano da Gran Bretagna

Gaza, 23 mar. (Adnkronos/Xin)- Hamas ha salutato oggi la notizia della prossima espulsione di un diplomatico israeliano dalla Gran Bretagna. “Salutiamo la decisione britannica di espellere il rappresentante del Mossad per l'uccisione di mahmoud al Mabouh”, ha dichiarato Salah al-Bardaweel, portavoce di Hamas nella Striscia di Gaza, aggiungendo di sperare che cio' portera' “all'incriminazione del Mossad” e a nuovi procedimenti legali verso Israele.

 

http://www.sentieriselvaggi.it/index.asp

Milano 20 – “Piombo fuso”, di Stefano Savona – Fuoriconcorso

Piombo fuso è anche il nome dell’operazione militare dell’esercito israeliano che nel dicembre 2008 ha sigillato i confini della Striscia di Gaza. Con lo stesso titolo il film di Stefano Savona che testimonia con le sue immagini ciò che accade chiedendoci a gran voce di essere ancora testimoni. Un film che riesce, con magica alchimia, a restituire la pura oggettività che non consente repliche.

…a cosa è servito piangere finora..

Sono pronto a sacrificare i miei figli. Loro non sono migliori degli altri che sono morti.

 dai dialoghi del film 

Non sembra essercene mai abbastanza. Non sembrano bastare mai i film, i reportage, i documentari che provengono dalle tormentate terre della Palestina. Stefano Savona dirige questo nuovo lavoro, già passato sugli schermi di Locarno, con passione civile e partecipazione personalissima. Piombo fuso è il racconto diaristico, ma soprattutto tragico, dei giorni dell’ultimo attacco dell’esercito israeliano alla Striscia di Gaza del gennaio 2009.

Stefano Savona adotta una scelta che non lascia scampo quando, entrando direttamente e personalmente nel cuore dolente dello scontro, dei bombardamenti che i civili hanno subito anche in questo nuovo attacco, spalanca e ci fa spalancare lo sguardo su quelle rovine e sull’abbandono in cui vivono gli abitanti. Un abbandono che non è soltanto materiale, ma che è soprattutto umiliazione senza alcuna speranza nel futuro e che denuncia il fallimento assoluto di qualsiasi speranza nella forza persuasiva della comunità internazionale.

Piombo fuso è il nome dell’operazione militare dell’esercito israeliano che ha sigillato i confini della Striscia di Gaza. Una crepa però si apre nel rigido controllo imposto dai militari israeliani e Stefano Savona, con la sua telecamera, varca il confine della Striscia e testimonia con le sue immagini ciò che accade.

Abbiamo visto, in questi anni, molte, troppe immagini che non avremmo voluto vedere che hanno allargato, nostro malgrado il confine di una possibile visione della guerra, l’occhio si è spinto la dove non avremmo voluto, al di là del rifiuto imposto dalla sopportazione. Piombo fuso ci chiede a gran voce di essere ancora testimoni e lo fa con rigorosa sapienza e consapevolezza di un’etica assolutamente ineccepibile. Savona si pone con la sua telecamera al centro dei fatti, nell’occhio di quel ciclone che travolge la popolazione smarrita e senza più speranza che vaga come dentro un girone infernale, riuscendo, con magica alchimia, a restituire, nonostante tutto ciò, una pura oggettività che non consente repliche. Tanto più la sua macchina da presa si avvicina allo scenario che deve catturare, tanto più l’immagine trascina con forza lo spettatore chiedendogli l’assunzione di una propria responsabilità, una chiamata che non lascia e non può lasciare indifferenti.

Sembra che più si avvicini ai fatti, alle parole disperate, ai volti in un’operazione di classica presa di posizione, politica e autoriale, le sue immagini diventino assolutamente oggettive, non replicabili, inconfutabili. Tanto più la sua macchina da presa si avvicina, tanto più la distanza dello sguardo si allarga con il paradossale effetto di una pura imparzialità dell’immagine che diventa incontestabile visione del reale. 

L’uso assai parco della parola, affidata solo ai dolenti protagonisti, completa quest’operazione cinematografica carica di un’emozione non comune che è rafforzata dalle immagini dei politici israeliani che per giustificare l’operazione militare si rivolgono a quella stessa popolazione inerme che subisce il disastro. Secondo le loro parole l’operazione si giustifica con la necessità di smantellare la resistenza terroristica. Ma le giustificazioni non possono reggere davanti alla evidente forza utilizzata, davanti alla devastazione dei luoghi e delle persone dentro una storia che continua e che ferisce e che, ora, mentre scriviamo, continua.

 

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UN FIORENTE COMMERCIO SESSUALE PALESTINESE

Da un rapporto pubblicato mercoledì, giovani donne palestinesi sono obbligate alla prostituzione in bordelli, in servizi di scorta e in appartamenti privati a Ramallah e Gerusalemme, anche in quartieri abitati da Ebrei. L’organizzazione palestinese SAWA (Tutte le donne insieme, oggi e domani) ha pubblicato l’articolo, il primo del genere, invitando energicamente la società palestinese a rompere il silenzio sulla sua industria sessuale. Il rapporto è stato compilato con l’aiuto di UNIFEM, il Fondo per lo sviluppo delle donne delle Nazioni Unite, che ha stanziato dei fondi per la ricerca su questo tema.

SAWA ha condotto l’inchiesta e le interviste per lo studio all’inizio del 2008, ma per una serie di motivi lo pubblica solo ora. Il rapporto, che si intitola “Traffico e prostituzione forzata di donne e ragazze palestinesi: forme di schiavitù moderna oggi” è stato presentato in occasione della “campagna globaleSalva di 16 giorni per combattere la violenza contro le donne”.
Il rapporto afferma che le donne di questo traffico vengono da diverse regioni della Cisgiordania, in particolare nelle zone urbane, ma anche da Gaza e da Gerusalemme. Anche donne provenienti dall’Europa dell’Est e vendute nel commercio sessuale in Israele sono occasionalmente condotte in Cisgiordania dove lavorano in appartamenti adibiti a questo scopo. Ci sono un certo numero di hotel legalmente registrati e compagnie di pulizia che offrono un “doppio servizio”, che include servizi sessuali per uomini.
Le ricercatrici hanno parlato solo con un piccolo numero di persone, per lo studio; tra queste, diverse donne, autisti di taxi, proprietari di hotel e inquirenti della polizia palestinese, e ne hanno tratto l’impressione che il traffico nei territori palestinesi non sia diretto da una rete complicata. Le ricercatrici hanno anche parlato con alcune donne palestinesi sfruttatrici, tra i 40 e i 50 anni, esse stesse in precedenza prostitute. Una di loro aveva una carta di identità di Gerusalemme e possedeva 4 appartamenti. Questa permetteva alle donne che lavoravano per lei di uscire liberamente, ma ricorreva ad intimidazioni per assicurarsi che ritornassero. Procurava loro anche clienti provenienti dall’interno di Israele.
Il rapporto segnala che, come in molti luoghi del mondo, le donne erano costrette alla prostituzione a causa di difficoltà economiche: i casi palestinesi portati alla loro attenzione provenivano soprattutto da incidenti di violenza sessuale, e talvolta da un matrimonio precoce in età molto giovane. Alcune delle donne citate nel rapporto sono studentesse in istituzioni di insegnamento superiore in Cisgiordania, e alcune studentesse di liceo. In un certo numero di casi portati all’attenzione delle autrici dalla stampa, sono dei padri ad aver venduto le loro figlie con matrimoni “deviati”, nei quali si annuncia un matrimonio senza l’intervento di un’autorità religiosa. Quando si vede una ragazza data in moglie ripetutamente nello stesso modo, è evidente che si tratta della copertura di un traffico sessuale.
Le autrici del rapporto sottolineano che i clienti delle prostitute vanno da “ricchi uomini di affari a persone giovani”, ma non danno altri particolari sulla loro identità e i loro precedenti.
Il rapporto insiste con energia affinché le autorità palestinesi e la società palestinese riconoscano l’esistenza del problema. Fa appello alle organizzazioni non governative palestinesi per proporre una legge che configuri la prostituzione come una violenza sessuale e per impegnarsi per la sua promulgazione. Il rapporto incoraggia anche a rigettare l’opinione che la prostituzione sia una “scelta” e propone la costituzione di autorità di applicazione della legge che trattino le donne con rispetto ed imparzialità. Il rapporto fa appello anche per la creazione di luoghi protetti, e per un maggior sostegno a quelli esistenti, dove le donne costrette alla prostituzione possano trovare rifugio.

SAWA è stato fondato nel 1988 e offre servizi tra i quali un “telefono rosso” di urgenza per le donne e i bambini. Propone insegnamento e formazione nelle scuole e con la polizia sulle questioni di violenza contro le donne.

http://www.carta.org/

Dodici Ong italiane a Gaza

La Farnesina ha deciso di finanziare con oltre quattro milioni di euro dodici progetti di intervento affidati ad altrettante Ong. Non servono a rompere l'assedio, ma almeno migliorano la vita degli abitanti della Striscia.

Matteo, Sara, Marina, Valerio, Lorenza e gli altri fanno la spola tra Gerusalemme e Gaza in questi giorni di marzo. Qualcuno conosce bene le regole del valico di Eretz, le anguste chiusure burocratiche della Striscia. Altri entrano dal confine con Israele per la prima volta. Tutti hanno fatto una scelta: limitare per un anno la propria liberta’ di novimento per vivere con i palestinesi che nell’ultima guerra hanno perso casa, famiglia, figli e libertà.
Sono i cooperanti delle dodici Ong italiane impegnate nei nuovi progetti finanziati dal Ministero degli Esteri per la ricostruzione nelle zone piu’ colpite dall’operazione Piombo Fuso. Per lo piu’ le aree a nord della Striscia, o nella cosiddetta zona cuscinetto tra Rafah e Khan Younis, a Qarara e Khoza. 
La Farnesina quest’anno ha messo sul piatto un totale di circa 4 mln e 250.000 euro per tredici progetti affidati a Ong, che vanno dalla tutela dei diritti dei bambini al ripristino delle infrastrutture idriche, dai progetti socio-educativi ad attivita’ psicosociali.

E forse per compensare lo scarso impegno poltico, Roma si e’ data da fare per Gaza piu’ che per la Cisgiordania: se nel biennio precedente all’attacco israeliano, Frattini aveva deliberato aiuti per 24,5 milioni di Euro a Gaza, nei due mesi successivi all’operazione Piombo Fuso l’importo totale gia’ raggiungeva i 12,3 milioni di euro, cui ora si aggiungono i fondi destinati ad una ricostruzione che pero’ sa ancora di emergenza. Meno della meta’ dei finanziamenti rimangono invece in West Bank per interventi strutturali di sostegno all’Anp.

«Si è tornati ad una sorta di normalità a Gaza ma è una normalità viziata dalla chiusura umana e commerciale che blocca il flusso delle merci e delle persone…», racconta Valerio, cooperante di Educaid, ormai un veterano a Gaza. «Ci sono stato per la prima volta nel 2007 – ricorda – subito dopo gli scontri tra Fataha e Hamas che hanno coinciso con la chiusura ‘umana’ della Striscia. A quel tempo la gente pensava ancora che fosse transitoria e che Hamas non avrebbe resistito, ma invece sono passati 3 anni…».

Educaid tra i bambini e’ famosa per il Ludobus, un pulmino colorato delle meraviglie che arriva dove altri non arrivano e porta a bordo clown dal naso rosso e giochi da circo. Non si e’ fermato neanche sotto le bombe: qualche mese dopo la guerra il ludobus era gia’ in strada e arrivava nelle tendopoli e nei campi per far ridere bambini e adulti.

Tuttavia, stando ai tempi burocratici, la diplomazia italiana avrebbe molto di che lamentarsi con la controparte israeliana: a Gaza le Ong entrano a fatica dal valico, dicono i cooperanti, anche per loro ottenere visti di lavoro non e’ per niente semplice.

Matteo di Ucodep entra in questi giorni per la prima volta ad Eretz e gestirà un progetto di pastorizia e allevamento per il recupero delle produzioni locali di formaggio.
A Tubas, a nord della West Bank, ha lavorato per un anno ad un grande mangimificio che aiuta gli allevatori di capre a produrre ricotta e mozzarelle. L’idea, nel lungo periodo, e’ quella di portare la mozzarella anche a Gaza: «Ma ci vorra’ del tempo. Siamo in una fase molto arretrata, dobbiamo ricominciare quasi da zero». Per la gente che e’ chiusa li dentro e’ importante il contatto umano, aggiunge Matteo.

Chiusura e silenzio: le parole piu’ ricorrenti usate da chi descrive Gaza ad un anno e mezzo dai bombardamenti. Pochissime auto in giro, niente da fare la sera, nessun divertimento, ancora macerie. Come in una collettiva rielaborazione del lutto i gazawi si ritirano in silenzio nel dolore ma sembrano condividere con gli stranieri una fittizia normalita’.

Una delle idee più innovative viene dal Coopi: presente da anni a Gaza, questa Ong ha pensato ad un sistema pilota per riciclare la plastica e rivenderla alle fabbriche locali che producono tubi per l’irrigazione. Il progetto consiste nel fornire un salario dignitoso, circa 200 euro al mese, ai rigattieri che gia’ lavorano a Gaza City e che non guadagnano piu’ di uno schekel [50 centesimi di euro] per ogni chilo di plastica riciclata.

Sara, 30 anni, studi orientali e ottima conoscenza dell’arabo, vive e lavora da un anno a Gaza City ma fa la spola con Gerusalemme. Coordina il nuovo progetto di Save the Children per il sostegno psicologico a 1060 adolescenti tra i 15 e i 18 anni.

Quattro bambini di Qarara e cinque di Khoza’a, le zone al confine di Israele dove opera la Ong sono morti durante l’operazione militare, e quasi 50 sono rimasti feriti. Alcuni risultano addirittura affiliati ai gruppi armati locali. E’ qui che Save the Children ha deciso di intervenire nel 2009, e lo fara’ di nuovo quest’anno, coinvolgendo la comunità locale. I bambini e gli adulti devono essere consapevoli dei diritti negati, dicono.

«L’anno scorso in seguito ad un’indagine sul campo abbiamo rilevato che i bambini di queste zone presentavano diversi disturbi del comportamento: problemi di attenzione e di espressione verbale, pipì a letto, ipercinetismo. In gran parte sono frutto del senso di abbandono e della paura. Molti di loro hanno visto morire i coetanei o i famigliari, altri hanno subito violenze sessuali…», spiega Sara raccontando dell’ impegno appena terminato con il precedente progetto.

Vivere a Gaza e’ dura anche per lei: «Ma la grande differenza e’ che per noi e’ una scelta e usciamo nel weekend se vogliamo, i palestinesi rimangono in gabbia».

«Alle volte l’anno scorso tornavo a Gaza con le valigie piene di tazzine da thè, scarpe da tennis, cioccolato – ricorda Sara – erano i regali che arrivavano dai familiari e amici dei gazawi di Ramallah. Mi chiedevano di portarli e io lo facevo volentieri».

 

 

 

 

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