Studi de-coloniali per ripensare a un Medio Oriente inserito nel Sud Globale multipolare

Studi de-coloniali per ripensare a un Medio Oriente inserito nel Sud Globale multipolare

Di Angela Lano (*). “Il pensiero de-coloniale ha come essenza la critica e la decostruzione della logica della colonizzazione, che deriva dai rapporti di potere coloniali e dalla dominazione coloniale. Il pensiero de-coloniale è politico e si sforza di superare i rapporti di colonizzazione, colonialismo e colonialità” (Ballestrin, 2013). Uno dei miti più potenti del XX secolo era l’idea che l’eliminazione delle amministrazioni coloniali avesse portato alla decolonizzazione, dando origine all’illusione di un mondo post-coloniale. Un mito, in realtà, che ci fa vedere che siamo ancora pienamente e globalmente immersi in un pianeta di colonizzatori e colonizzati. Come scrive Grosfoguel (2008), negli ultimi 70 anni, le molteplici ed eterogenee strutture globali, create nell’arco di 450 anni, non sono scomparse insieme alla decolonizzazione giuridico-politica del Sud del mondo e, infatti, continuiamo a vivere dominati dalla stessa matrice del potere coloniale, forse ancora più forte, radicata e diffusa, grazie alla globalizzazione e al ruolo potente e manipolatorio dei media mainstream.

Se il colonialismo è pratica di conquista, di sottomissione e di sfruttamento, la colonialità si è rivelata più duratura e profonda come sistema di potere, soprattutto perché si basa sulla giustificazione del ruolo dei colonizzatori come organizzatori razionali del mondo e portatori di un ordine di superiorità (Torre, 2020).

In Decolonizzazione e privilegio, la geografa Rachele Borghi (2020) sottolinea: “Dopo la fine del colonialismo storico, vivevamo con l’illusione di aver superato il colonialismo nel momento in cui tutti i paesi diventavano politicamente indipendenti, quando il processo generalmente denominato ‘decolonizzazione’ era iniziato. Tuttavia, si tratta di un processo che ha più a che fare con la formazione degli Stati nazionali da un punto di vista formale e con l’invenzione della nazione, che con la vita materiale delle persone. Inoltre non ha nulla a che vedere con la decolonizzazione del pensiero, con l’eliminazione delle gerarchie tra gli individui e la sconfitta dei rapporti di dominio”.

Negli ultimi decenni, l’Occidente (inteso in senso economico e non geografico), guidato da Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Israele, che sono ancora potenze coloniali, ha innescato, incoraggiato e indotto decine di conflitti, convenzionali e non convenzionali, guerre civili, rivoluzioni colorate e “primavere arabe” per il “cambio di regime” e il “caos permanente” nell’Europa orientale (paesi balcanici ed ex repubbliche sovietiche), nel Vicino Oriente (Palestina, Siria e Libano) e Medio Oriente (Iraq, Iran, Yemen, Afghanistan), Nord Africa (Tunisia, Libia, Egitto) e parti dell’Africa sub-sahariana, per finire nel subcontinente indiano (Pakistan e Kashmir) e il conflitto tra Ucraina/NATO e Russia. Si tratta di decine di milioni di morti (mezzo milione di bambini in Iraq, solo nella Prima Guerra del Golfo). Per non parlare dell’AfriCom, un vero e proprio esercito coloniale statunitense posizionato in gran parte dell’Africa.

Si tratta, dunque, di forme neo-coloniali e di suprematismo bianco sotto mentite spoglie e con il pretesto della lotta contro le dittature, a favore dei “diritti umani”, della “democratizzazione” nel mondo islamico – ad esempio, riguardo a questioni religiose e femminili, in relazione alle quali i media mainstream occidentali fanno ampio uso di una comunicazione razzista, fuorviante, degradante e discriminatoria.

I bersagli geopolitici dell’Occidente continuano ad essere, tra gli altri, il Nord Africa e il Vicino e Medio Oriente: Tunisia, Libia, Egitto, Libano, Siria, Palestina, Iraq, Yemen, Afghanistan, ecc.

Per quanto riguarda la Palestina, si tratta di un territorio sotto occupazione israeliana, dove i nativi sono vittime di un genocidio progressivo (Said, 1979; Pappè, 2008) e ora di un vero e proprio genocidio nella Striscia di Gaza. Quanto all’Iraq e alla Libia, paesi che detengono alcune delle più importanti risorse petrolifere del mondo, sono stati ridotti in uno stato di povertà generale dalle guerre della NATO.

Nell’attuale scenario internazionale, il ruolo della Cina si distingue sul piano geopolitico, e non solo commerciale ed economico, spingendo verso un mondo multipolare: secondo le parole dello stesso presidente Xi Jinping, in visita a Mosca il 25 marzo 2023, un mondo multipolare offre sfide e opportunità per il Medio Oriente e l’Africa. Di particolare interesse è la posizione cinese come mediatore di pace nel Vicino e Medio Oriente: tra Arabia Saudita e Iran, in relazione agli scenari di guerra in Siria e Yemen, e tra Palestina e Israele.

Il potente ruolo dei media e della comunicazione di massa.

Accanto all’importante discorso storico, politico e geopolitico, va evidenziato quello della comunicazione mass-mediatica: già negli anni settanta Guy Debord (1971) sottolineava la centralità dei mass media, segnando una nuova fase nella storia dell’oppressione sociale e politica. Più recentemente, nei suoi scritti sul Surveillance Capitalism, Shoshana Zuboff (2019) mette in luce il colpo di stato epistemico, cioè il colpo messo in atto dalle multinazionali tecnologiche per rivendicare la proprietà della conoscenza nella società: “In una civiltà dell’informazione, le società sono definite da questioni di conoscenza: come viene distribuita, l’autorità che governa la sua distribuzione e il potere che protegge tale autorità. Chi conosce? Chi decide chi conosce? Chi decide chi decide chi conosce? I capitalisti della sorveglianza ora hanno le risposte a ogni domanda, anche se non li abbiamo mai eletti per governare. Questa è l’essenza del colpo di stato epistemico. Rivendicano l’autorità di decidere chi conosce, affermando i diritti di proprietà sulle nostre informazioni personali, e difendono tale autorità con il potere di controllare sistemi e infrastrutture informatiche critiche”.

Con il lavoro di Mattias Desmet (2022) siamo arrivati ​​all’elaborazione del concetto di totalitarismo, che si basa su un potente processo psicologico, che è la massificazione dei cittadini. Si tratta essenzialmente di una forma di ipnosi collettiva che priva gli individui della capacità di distacco critico e di fare appello alla propria coscienza. Desmet segue la visione distopica del futuro evocata da Hannah Arendt (1967), secondo la quale un nuovo tipo di totalitarismo, guidato da burocrati e tecnocrati, sarebbe emerso dopo la caduta del nazismo e dello stalinismo. Nel totalitarismo, che mostra un radicale disprezzo per i fatti, molte persone non riescono a distinguere tra realtà e finzione ufficiale. Si produce così un conformismo generalizzato (MARCUSE, 1968): nell’attuale mondo globalizzato, con accesso a ogni tipo di informazione, gli esseri umani hanno la possibilità di scegliere, ma non hanno gli strumenti per una vera autonomia e, infatti, diventano passivi e manipolabili.

In questo contesto, i mass media agiscono globalmente come strumento di propaganda dell’azione politica e del totalitarismo (Le Bon, 1895; Zuboff, 2019, 2021; Desmet, 2022), nella direzione della servitù volontaria (La Boètie, 1548), ma indotti dall’esterno: è fondamentale, quindi, comprendere il ruolo dell’informazione in relazione alle dinamiche globali a sostegno dei progetti neo-coloniali occidentali. È, inoltre, necessario analizzare e decodificare il linguaggio (semantica e rappresentazione antropologica) utilizzato dai media occidentali in relazione ai paesi target di interesse strategico/geopolitico/economico.

Come viene definita la lotta di liberazione/resistenza dei popoli palestinese, siriano, iracheno, afghano, yemenita, ecc. contro gli invasori? Come vengono definiti, descritti e rappresentati i resistenti e i loro leader? Non sono sempre terroristi, incivili, violatori dei diritti umani, una minaccia per il nostro modo di vivere?

“Dovunque arrivi il colonizzatore e si trovi di fronte alla resistenza dei popoli indigeni contro le loro politiche imperialiste, egli considera la distorsione dell’immagine di questi popoli uno strumento efficace per assicurare all’opinione pubblica del suo paese che tutto ciò che fa è nell’interesse delle persone, non importa quanto brutali siano i crimini che commette, che non sono più un segreto per nessuno. Quando il popolo del paese occupato e la sua resistenza vengono chiamati con nomi degradanti, è più facile per le forze di occupazione mostrare al mondo la portata della loro nobiltà e della loro abnegazione per liberarli dal pericolo dei gruppi terroristici.

“La posizione politica del governo (britannico) è basata su un’ideologia razzista sistematica che vede il Medio Oriente come un rifugio per il terrorismo, presentandolo al mondo come tale e trattandolo da quella prospettiva, come vediamo in relazione alla Palestina, all’Iraq e alla Siria.

Perché? Cosa dà importanza a questa immagine nella politica britannica, che viene spesso riprodotta negli approcci politici e mediatici occidentali e nei media arabi con un’ironia che esprime un sentimento di inferiorità? La ripetizione e l’affermazione di questa immagine mira a spogliare i popoli dell’altra regione della loro umanità, in modo che non suscitino alcuna simpatia o responsabilità morale, poiché la loro esistenza è ridotta a fonte di minaccia e pericolo e, quindi, la loro eliminazione è giustificata” (Zangana, 2023).

Ad esempio, dal 2001 (attentato alle Torri Gemelle di New York) ad oggi, sul terrorismo islamico, sul radicalismo islamico e su argomenti simili ci sono abbondanti testi ad ampia diffusione, ma con scarso supporto storico-scientifico, che hanno alimentato confusione e contribuito a produrre islamofobia, fenomeni discriminatori e persecutori che coinvolgono milioni di cittadini musulmani in Occidente e che hanno contribuito a creare il consenso alle guerre contro Afghanistan e Iraq.

Si tratta, ora, di comprendere come, in termini materiali, le forme di potere abbiano assunto modelli coloniali su scala globale: la colonia è diventata una modalità di dominio globale superando i confini tradizionali (Grosfoguel, 2005). È necessario, quindi, proseguire nella direzione degli Studi coloniali, neo-coloniali e de-coloniali nei confronti dei paesi arabi e islamici coinvolgendo, in modo interdisciplinare, le scienze sociali come l’Antropologia, la Storia, la Geopolitica, la Comunicazione di massa, il Diritto Internazionale, le Scienze delle Religioni, ecc., con particolare attenzione al processo di assoggettamento coloniale della psiche umana, all’identificazione dei neri (in questo caso arabi, musulmani, ecc.) come simbolo del male, e alla permanenza della colonizzazione del pensiero (Fanon, 1952) nelle sue molteplici forme…

Proprio in questo contesto si inserisce un lavoro sinergico tra giornalisti e accademici di diversi paesi arabo-islamici per de-costruire il linguaggio neo-coloniale e orientalista dei media occidentali e contribuire a promuovere un nuovo modello, una nuova etica della comunicazione e della narrazione storica che rispetti le tradizioni e le culture delle regioni musulmane e che sappia presentare una versione corretta e non manipolata dei fatti e della storia: giornalisti e studiosi del Medio Oriente hanno utilizzato i termini di colonialismo e neocolonialismo in relazione alle operazioni militari e alle aggressioni di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia (e altri paesi della NATO) e Israele nel Vicino e Medio Oriente (ad esempio, i bombardamenti quotidiani della Siria o i massacri di palestinesi, iracheni, afghani o yemeniti), e l’attuale genocidio israeliano a Gaza, denunciando l’ideologia razzista dei governi occidentali, il ruolo passivo o i doppi standard della comunità internazionale, delle organizzazioni umanitarie e giuridiche internazionali e delle Nazioni Uniti.

Nell’ambito degli studi coloniali, nazionali e neo-coloniali sul mondo arabo, si distingue il lavoro di Rashid Khalidi, storico palestinese-americano e professore al Middle East and Edward Said Modern Arab Studies alla Columbia University, negli Stati Uniti.

La ricerca di Khalidi si basa sull’emergere di varie identità nazionali e sul ruolo svolto dalle potenze esterne nel loro sviluppo; sull’impatto della stampa e sul modo in cui le narrazioni si sono sviluppate negli ultimi secoli nelle regioni del Mediterraneo e del Medio Oriente.

Gran parte del lavoro accademico di Khalidi si concentra sulla ricostruzione storica del nazionalismo nel mondo arabo: attingendo al lavoro del teorico Benedict Anderson (1983, 1993), che descrisse le nazioni come comunità immaginate, egli non postula l’esistenza di identità nazionali primordiali, ma evidenzia la legittimità e i diritti di tali nazioni.

Per quanto riguarda la Palestina, in Palestine Identity: The Construction of Modern National Consciousness (1997), colloca l’emergere dell’identità nazionale nel contesto del colonialismo ottomano e britannico e del movimento sionista. In particolare, egli data l’emergere del nazionalismo palestinese all’inizio del XX secolo, fornendo una replica alle affermazioni nazionaliste israeliane secondo le quali i palestinesi non avevano rivendicazioni collettive prima della creazione di Israele nel 1948.

In Resurrecting Empire: Western Footprints and Americas Perilous Path in the Middle (2004) Khalidi evidenzia il coinvolgimento storico dell’Occidente in Medio Oriente e sostiene che questo continua ad avere una natura coloniale moralmente inaccettabile.

Judith Butler arricchisce il dibattito con Parting Ways Jewishness and the Critique of Zionism (2012), riprendendo il lavoro di Edward Said e articolando una critica al sionismo politico e alle sue pratiche di violenza statale illegittima, nazionaliste e razziste. Rivisita e riafferma le ultime proposte di Edward Said per una soluzione statale binazionale tra palestinesi e israeliani.

Nuovi scenari militari.

Mentre permane il conflitto Nato/Ucraina e Russia, è entrata in scena con violenza brutale una nuova guerra contro l’Oriente musulmano: la guerra israeliana contro la Striscia di Gaza sotto assedio da 17 anni, che ha già provocato oltre 110.000 tra morti, scomparsi, dispersi e feriti), 2 milioni di dislocati, la quasi totale distruzione della regione palestinese costiera, 7.000 prigionieri gazawi, e una crisi alimentare, sanitaria e umanitaria senza precedenti. Il tutto, di fronte all’Occidente complice e al mondo arabo colonizzato economicamente e nel pensiero, e dunque passivo.

La comunicazione per costruire consenso (Chomsky, 2002) riproduce sempre lo stesso schema utilizzato in tutti gli altri conflitti per manipolare le folle (Le Bon, 1895; Desmet, 2022) e indurle a sostenere la nuova impresa militare del momento: la propaganda negativa, le menzogne, le falsificazioni o la manipolazione dei fatti e, infine, l’invenzione del casus belli. Il Paese/governo/leader preso di mira viene prima demolito e delegittimato dai media – megafono e strumento dell’establishment politico ed economico occidentale –, poi attaccato militarmente).

A tal fine, la semantica e i diritti umani vengono utilizzati per costruire il nemico, in un approccio orientalista coloniale dispregiativo, degradante, discriminatorio e razzista. Si tratta di una distruzione e degradazione antropologica dell’altro, deliberatamente attuata, che lo rappresenta quotidianamente in TV, sui giornali e sui social media, come barbaro, arretrato, pericoloso, primitivo, indegno di stare nella comunità internazionale a tal punto che la le folle, come le pire delle streghe medievali, accolgono le rivoluzioni guidate dall’esterno, i cambiamenti di regime, i colpi di stato, gli interventi della NATO, le guerre come inevitabili e necessarie per portare civiltà e democrazia ai trogloditi – come è successo con l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia, la Siria, ecc., e come potrebbe succedere con l’Iran.

Per quanto riguarda il concetto di democratizzazione ampiamente utilizzato dagli Stati Uniti, segnaliamo le significative affermazioni di Fred Mmembe, giornalista e presidente del Partito socialista dello Zambia, durante un discorso tenuto al Forum internazionale sulla democrazia a Pechino, nel marzo 2023: “Un paese che ha rovesciato tanti governi in Africa, che ha condotto tanti colpi di stato in Africa e in altre parti del mondo, un paese che ha ucciso tanti dei nostri leader in Africa e in altre parti del mondo… un paese che è stato costruito con forza brutale sulla schiavitù di altri esseri umani, sull’umiliazione degli africani, sullo sfruttamento degli africani, oggi viene a insegnare la democrazia. Questa è arroganza, arroganza imperialista” (23/3/2023; 4/4/2023).

Dunque, nonostante l’illusione di un mondo post-coloniale, viviamo ancora in una realtà di colonizzatori e colonizzati, grazie alla globalizzazione e al ruolo potente e manipolativo dei media mainstream.

Accanto ai discorsi storici, economici, politici e geopolitici, va evidenziato quello della comunicazione mass-mediatica, fondamentale per comprendere il ruolo dell’informazione in relazione alle dinamiche globali a sostegno dei progetti neocoloniali occidentali: ciò rende necessario analizzare e decodificare il linguaggio ( la semantica e la rappresentazione antropologica e culturale) e anche il tema dei diritti umani, utilizzato dai media occidentali nella costruzione del nemico in Paesi di interesse strategico/geopolitico/economico, in questo caso il mondo arabo e islamico.

La distruzione e il degrado antropologico dell’altro, come simbolo del male (barbaro, arretrato, pericoloso, primitivo, indegno di stare nella comunità internazionale), attuata quotidianamente in TV, sui giornali, sui social network e in una certa produzione bibliografia di massa, mira a giustificare gli interventi della NATO per il cambio di regime a favore della “civiltà e della democrazia”.

Gli studi coloniali, neo-coloniali e de-coloniali, con riguardo ai paesi islamici dell’Africa settentrionale e orientale, e del Vicino e Medio Oriente coinvolti nelle dinamiche neo-coloniali occidentali, sono fondamentali per analizzare e de-costruire le congiunture geopolitiche in atto, alla luce, anche, della comunicazione di massa, contribuendo a promuovere un nuovo modello, una nuova etica della comunicazione e della narrazione storica e culturale che rispetti le tradizioni e le culture delle regioni musulmane e che sappia presentare una versione corretta e non manipolata dei fatti e degli sviluppi storici e geopolitici.

(*) Angela Lano, direttrice InfoPal.it. PhD in Studi Africani e del Medio Oriente, post-dottorato in Scienze della Religione, post-dottoranda in Studi coloniali e neocoloniali del Nord Africa e del Medio Oriente.

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