Tra i vicoli senza luce di Shatila.

Da www.corriere.it del 19 giugno

in Libano, nel più famigerato dei campi, quello che fu teatro degli orrendi massacri del 1982

Tra i vicoli senza luce di Shatila
Vite sospese di rifugiati palestinesi

In 250 mila senza diritti. Perché non mandarli nei Territori Occupati?

Di Sergio Romano

Le cause remote della guerra civile libanese furono i precari
equilibri fra le diciotto comunità religiose installate da secoli in
una stretta lingua di terra fra il Mediterraneo e la valle della
Bekaa. Ma le cause vicine, quelle che dettero fuoco alla miccia
nella primavera del 1975, furono l’arrivo nel Paese di parecchie
migliaia di militanti palestinesi, cacciati dalla Giordania di re
Hussein. In Libano, accolti in campi di fortuna, vivevano già altri
palestinesi, fuggiaschi del 1948 e del 1967. Ma i nuovi arrivati
avevano le armi, un’organizzazione militare e soprattutto
l’intenzione di trasformare il Libano in una base strategica per le
loro operazioni contro Israele. Erano quindi, virtualmente, uno
Stato nello Stato.

Non vi fu un colpo di pistola, come a Sarajevo, nell’estate del
1914. Ve ne furono molti, con la loro inevitabile coda di rabbia,
lutti e vendette, sino al 13 aprile 1975 quando un autobus carico di
palestinesi cadde sotto il fuoco incrociato delle Falangi cristiane
a Beirut mentre attraversava il quartiere di Ain Al Rumanneh. I
morti furono 27, i feriti 19: i primi di una sporca guerra che fece
probabilmente quasi duecentomila vittime. La partenza delle milizie
di Arafat, all’inizio degli anni Ottanta, non impedì che la guerra,
ormai alimentata dalle interferenze straniere, continuasse sino al
1990. Ma la memoria del conflitto, nella coscienza dei libanesi,
resta indissolubilmente legata al ricordo dei palestinesi
che «invasero» a più riprese il territorio nazionale.

Ve ne sono circa duecentocinquantamila, divisi fra una dozzina di
campi che vengono amministrati da un’agenzia dell’Onu (Unrwa, United
Nations Relief and Works Agency). Sono molto meno dei seicentomila
che vivono in Siria e di quelli (più di un milione e mezzo) che
vivono in Giordania, ma hanno meno diritti dei loro connazionali
dispersi nella regione. Non possono acquisire la cittadinanza
libanese. Non possono esercitare le libere professioni. Possono
tutt’al più svolgere piccoli lavori manuali soprattutto in nero. Per
cercare di comprendere quali siano le loro condizioni di vita ho
visitato Shatila, il più famigerato dei campi, quello che fu teatro
degli orrendi massacri del 1982. Richard Cook, direttore dell’Unrwa
per il Libano mi indica il campo dalle finestre del suo ufficio e
più tardi, lungo il percorso, il luogo dove, secondo i cronisti
dell’epoca, le forze armate israeliane installarono i riflettori che
avrebbero illuminato Shatila durante il micidiale raid delle milizie
cristiane.

Mentre ci infiliamo in minuscoli vicoli, sgambettando fra pozze
d’acqua e occasionali pezzi di selciato, Cook mi spiega che il campo
dovrebbe alloggiare tremila persone e comporsi di casupole o
baracche di un solo piano. Ma nessuno poté evitare che le casupole,
con il passare degli anni, venissero costruite in cemento, che i
piani divenissero cinque o sei e che il numero degli abitanti, sullo
stesso spazio fornito a suo tempo dalle autorità palestinesi,
salisse a circa 12.000. La parola «campo», del resto, è ormai del
tutto impropria. Shatila è la caricatura grottesca di una città. Ha
vie incredibilmente strette, piccolissimi slarghi, negozi angusti.
Affacciandomi su una finestra a pian terreno vedo un muratore: sta
alzando un muretto all’interno di una stanza che non supera i tre
metri quadrati. Le case sono troppo vicine l’una all’altra perché i
raggi del sole possano entrare a Shatila. La piccola fetta di cielo
che s’intravede fra i tetti è quasi completamente nascosta da un
fitto reticolato di cavi elettrici volanti e da bombole del gas,
appoggiate su un terrazzino di fortuna. L’acqua si prende dagli
idranti collegati alle tubature di Beirut, ma non è potabile.
Dimenticavo: questi minigrattacieli non hanno fondamenta.

Basterebbe una sola scossa di terremoto per trasformare Shatila in
una tomba collettiva. Grazie all’Unrwa le condizioni sanitarie,
paradossalmente, sono migliori dell’immaginabile. L’agenzia
raccoglie la spazzatura al mattino, distribuisce bottiglioni d’acqua
potabile, assicura l’insegnamento scolastico e una certa assistenza
sanitaria, aiuta le famiglie più bisognose e organizza corsi di
family planning per controllare nei limiti del possibile l’aumento
della natalità. Cook mi spiega che le malattie infettive (tifo,
colera, antrace) sono rare e che il rischio delle epidemie è
modesto. Ma l’aria cattiva, l’umidità, la mancanza di luce e la
cattiva alimentazione rendono gli abitanti di Shatila molto più
vulnerabili alle malattie «ordinarie», dal diabete al cancro, dalla
tubercolosi all’Aids. I bambini sono belli, vivaci, curiosi e, a
giudicare dai risultati scolastici, eccezionalmente intelligenti. Ma
gli adulti che ammazzano il tempo fumando neghittosamente il
narghilé all’angolo di una casa sono quegli stessi bambini venti o
trent’anni dopo. La stretta al cuore con cui il visitatore esce da
Shatila è il pensiero del loro futuro.

È possibile gestire indefinitamente l’orrore con i criteri
dell’ordinaria amministrazione? Ne ho parlato a lungo con due
persone che dedicano a questo problema buona parte delle loro
giornate: Abbas Zaki, rappresentante a Beirut dell’Organizzazione
per la Liberazione della Palestina e l’ambasciatore Khalil Makkawi,
presidente del Comitato di dialogo israelo-libanese. Zaki sa che il
Libano non ha dimenticato il ruolo dei palestinesi nella guerra
civile e non può ignorare che la loro integrazione nella società
nazionale sconvolgerebbe il delicato equilibrio cristiano-sunnita-
sciita. E sa infine che la questione palestinese si è bruscamente
riaperta nel 2007 quando poche centinaia di militanti di una
misteriosa organizzazione islamista, Fatah Al Islam, si sono
impadroniti del campo di Nahr el Bared, nel nord del Libano, hanno
rapinato una banca, hanno ucciso 179 soldati libanesi e ne hanno
brutalmente massacrati trenta. In quei mesi cruciali, mentre il
generale Michel Suleiman, oggi presidente della Repubblica,
bombardava il campo di Nahr el Bared, Zaki ha temuto di ricadere nel
vortice degli anni in cui i suoi connazionali erano considerati una
minaccia all’integrità e alla stabilità del Paese.

Per esorcizzare il passato ha diffuso nel gennaio del 2008 una
dichiarazione in cui è detto tra l’altro che i palestinesi in Libano
debbono sottomettersi all’autorità dello Stato e che l’Olp s’impegna
a rispettarne la sovranità. Ma è preoccupato. Nelle vicenda di Fatal
Al Islam, il rappresentante dell’Olp vede interferenze straniere,
forse siriane, e la mano di chi vorrebbe seminare zizzania nella
regione. Nei confusi negoziati diplomatici delle ultime settimane
fra Israele e la Siria, invece, vede il rischio che la questione
palestinese finisca su un binario morto. E non può dimenticare,
suppongo, che i campi sono focolai di rabbia, vivai di possibili
reclutamenti. Sui muri di Shatila non ho visto le fotografie di
Arafat e Mahmoud Abbas. Ho visto quelle dei «martiri » che
combattono contro Israele nella Striscia di Gaza. Khalil Makkawi è
un vecchio diplomatico, esperto, affabile, intelligente, già
rappresentante del suo Paese a Roma e vice presidente dell’Assemblea
delle Nazioni Unite. È copresidente con Zaki del Comitato per il
dialogo libano- palestinese da quando il governo di Fouad Siniora,
nel 2006, volle dimostrare che il Libano non aveva dimenticato i
suoi sventurati «ospiti». Ma la sua maggiore preoccupazione in
questo momento è il loro presente, non il loro futuro. Mi ha
mostrato i progetti per la ricostruzione del campo di Nahr Al Bahr,
spiegati sulle pareti del suo ufficio come nello studio di un
architetto, e mi ha parlato della conferenza dei donatori che
avrebbe dovuto tenersi a Vienna qualche giorno dopo per trovare il
denaro necessario alla ricostruzione. Non basta. Si rende conto che
occorre dare ai palestinesi il permesso di lavorare e non esclude
che il parlamento libanese, più tardi, possa autorizzarli con una
legge speciale all’esercizio delle professioni. Ma per il momento
anche Khalil Makkawi, come il direttore dell’Unrwa, deve limitarsi
ad amministrare l’esistente e a correggere per quanto possibile gli
aspetti più inumani della vicenda. I rifugiati palestinesi in Libano
sono la più piccola delle tre comunità insediate nella regione. Ma
la natura del Libano rende la loro integrazione molto più difficile
di quanto sia quella dei palestinesi in Siria e in Giordania.
Dimenticando per un momento le obiettive difficoltà politiche,
l’osservatore straniero non può fare a meno di ricordare che i
coloni israeliani nei territori occupati sono oggi circa 400.000
mila. Se si è trovato lo spazio per i loro insediamenti perché non
potrebbe esservi spazio, un giorno, anche per i 250.000 palestinesi
del Libano? Separare la loro sorte da quella dei compatrioti più
stabilmente alloggiati in altri Paesi potrebbero essere un segnale
di buon senso, oltre che di umanità.

Sergio Romano
19 giugno 2008

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