“Perché non riesco a convivere col trauma di Gaza”

E.I. Mio padre rispose ad una telefonata che lo avvisava che tutta la nostra famiglia doveva evacuare la casa. Stava per essere bombardata.

La chiamata arrivava da qualcuno che lavorava con il Comitato Internazionale della Croce Rossa. Era arrivata durante uno dei giorni dell’operazione Piombo Fuso – una delle peggiori aggressioni avvenute contro Gaza, da dicembre 2008 a gennaio 2009.

Non ricordo la data esatta nella quale ricevemmo la telefonata. In quei momenti, ogni giorno ci pareva uguale.

Le strade erano deserte. Ma erano piene di detriti degli edifici che erano stati distrutti o danneggiati.

Si poteva sentire l’odore di esplosivo nell’aria.

Era inquietante, ma tutt’altro che silenzioso.

I carri armati e gli elicotteri di Israele erano estremamente rumorosi. Più rumorosi di qualsiasi altra cosa potessimo sentire.

Al-Saftawi – il quartiere dove vivevamo nel nord di Gaza – era buio e spaventoso. Non c’erano né cibo né acqua e quasi niente elettricità.

Panico.

Quel giorno in cui ricevemmo la telefonata ha lasciato una cicatrice nella mia anima.

Ricordo mio padre che urlava il mio nome e quello dei miei fratelli e delle mie sorelle. Ha dovuto avvertire anche le altre persone che vivevano nel nostro palazzo.

Potevo sentire il panico nella sua voce.

Ricordo che i vicini si precipitarono verso di noi per aiutarci.

Alcuni di loro mi stringevano la mano mentre correvo. Ero senza scarpe.

Avevo riempito una borsa con alcune delle mie cose, che io – avevo allora 15 anni – ritenevo preziose.

Alcuni dei miei vestiti preferiti ed il mio diario finirono in quella borsa. Avevo anche messo alcune cose che mi ricordavano i miei migliori amici.

Ma ho dovuto lasciare quella borsa dietro di me.

Quando ho supplicato mio padre di lasciarmela portare, mi ha detto che dovevo uscire immediatamente.

Tutti i residenti del nostro edificio si rifugiarono in uno di fronte.

Aspettammo.

Pensavamo che Israele avrebbe bombardato tutto quel che avevamo.

La nostra casa ha cinque piani e un giardino paradisiaco, con olivi, limoni, fichi e palme. E’ strato costruito dai miei genitori con il denaro guadagnato faticosamente. Abbiamo un’altalena nel nostro cortile. Questo mi ha fatto sentire una privilegiata quando ero bambina.

All’interno abbiamo una fotografia incorniciata dei nostri nonni. Offre un ricordo sempre presente della situazione della nostra famiglia – di come eravamo rifugiati, perché i nostri nonni furono espulsi dai loro villaggi nativi di Beit Jirja e Isdud, dalle forze sioniste, nel 1948.

L’appartenenza politica della nostra famiglia risulta ovvia dalle raffigurazioni appese alle pareti.

La fotografia dei miei nonni è appesa di fianco a quella di George Habbash, colui che ha fondato il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina.

La mia casa significava tutto per me. Ora, ero in attesa che venisse fatta saltare in aria.

Siamo rimasti in attesa per quella che ci è sembrata un’eternità. Non è successo niente. Grazie a Dio.

(Nella foto: Tamam Abu Salama è in terapia a Bruxelles per gli effetti degli attacchi israeliani a Gaza. Nahla Wahidi).

Non c’è tempo per guarire.

L’operazione Piombo Fuso durò per tre settimane, durante le quali Israele uccise circa 1.400 Palestinesi, la maggior parte civili, compresi oltre 300 bambini.

Quando terminò, avrei desiderato che qualsiasi cosa si fosse fermata per alcuni giorni in modo da riuscire ad elaborare tutto quel che avevamo subito; la crudeltà alla quale Israele ci aveva sottoposto.

Ma non c’era tempo per la guarigione. La vita doveva continuare.

I Palestinesi di Gaza – me inclusa – devono affrontare la paura e le perdite fin dalla tenera età.

Dopo ogni evento traumatico andiamo avanti con le nostre attività quotidiane. Quindi, accade un altro evento traumatico mentre non lo stiamo aspettando.

Ho fatto il possibile per condurre una vita normale dopo l’operazione Piombo Fuso. Sono tornata a scuola e ho fatto finta che tutto andasse bene.

Ma non era così.

Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a sfuggire a quello che era successo il primo giorno dell’operazione Piombo Fuso. Il rumore degli elicotteri israeliani ronzava ancora nella mia testa.

Io e mia sorella Shahd eravamo a scuola quel giorno, quando Israele ha attaccato un luogo nelle vicinanze.

Siamo fuggite dalla scuola insieme, ma fuori ci siamo perse. Per strada ho continuato a chiamare Shahd ma non riuscivo a trovarla.

Grazie a Dio, ci siamo ritrovate quasi subito. Ma il pensiero che Shahd quel giorno avrebbe potuto essere uccisa è rimasto con me da allora.

Ancora adesso sono ossessionata dall’immagine di compagni di scuola che corrono da un posto all’altro, alla disperata ricerca di un riparo.

E non dimenticherò mai come la nostra famiglia abbia dovuto comunicare una terribile notizia ad una delle mie amiche, che allora stava a casa nostra. Anche suo padre abitava con noi e rimase ucciso durante un attacco aereo israeliano mentre era uscito per fare la spesa.

Abbiamo dovuto informare la mia amica ed i suoi fratelli della morte del loro padre.

Nessun futuro.

Anche se non potevo togliermi queste cose dalla testa, sono riuscita a sopravvivere quasi normalmente fino all’inizio del 2011. Poi sono scoppiate le rivolte in Egitto e Tunisia.

I giovani di Gaza venivano ispirati da quelle rivoluzioni. Ci hanno incoraggiato a difendere i nostri diritti.

Abbiamo iniziato ad organizzare le nostre proteste e a mobilitarci sui social media.

Le mie attività politiche mi distraevano dagli studi. Trascorrevo le mattine a scuola ed il resto della giornata protestando o organizzando assieme agli altri attivisti.

Nel marzo di quell’anno abbiamo protestato per tre giorni consecutivi prima che le autorità di Hamas interrompessero la nostra protesta. Agenti di polizia in borghese ci hanno picchiati.

Il minimo sintomo di ottimismo portato dalle rivoluzioni egiziana e tunisina non è durato a lungo a Gaza.

L’assedio imposto da Israele ed Egitto ha continuato ad avere un effetto soffocante sulle nostre vite.

I giovani sono rimasti disperati. La disoccupazione era alta e la maggior parte delle famiglie dipendeva dagli aiuti alimentari, soprattutto da quelli forniti dalle Nazioni Unite.

Verso la fine del 2011 mi sono iscritta presso l’Università al-Azhar nella città di Gaza. Ho iniziato a studiare per conseguire una laurea in letteratura inglese e francese.

Frequentare il college dovrebbe essere un’esperienza gioiosa ed emozionante. Eppure sembrava che non ci fosse modo che io o qualsiasi altro giovane potessimo avere un buon futuro restando a Gaza.

Per le giovani donne è ancora più difficile rispetto alle loro controparti maschili. Le autorità di Hamas, per usare un eufemismo, non hanno preso di buon grado le donne come me, che sono politicamente attive.

Decadi di colonizzazione israeliana hanno reso la cultura patriarcale di Gaza ancor più marcata.

Il blocco completo imposto da Israele fin dal 2006 ci ha lasciati isolati dal resto del mondo.

Una delle sue conseguenze è che la società è divenuta più conservatrice. L’uguaglianza di genere non viene considerata una priorità da molti in un momento di peggioramento delle condizioni economiche.

Dopo neanche un anno presso l’Università al-Azhar, ho deciso di lasciare Gaza e di trasferirmi in qualche posto più sicuro. In un luogo nel quale potevo muovermi più liberamente.

Sono andata in Turchia, dove ho studiato giornalismo all’Università di Ankara.

Dalla Turchia, ho fatto vari viaggi in Europa. Successivamente mi sono trasferita in Belgio dove ora sto studiando francese.

Adesso sono otto anni che mi trovo lontana da Gaza. Quasi la metà di questo periodo l’ho trascorso a Bruxelles, dove mi è stato concesso lo status di protezione.

Eppure gli orrori di cui sono stata testimone a Gaza non mi hanno abbandonata.

Fatico spesso ad addormentarmi. E quando mi addormento, ho spesso degli incubi.

Sono costantemente logorata dalla paura e dall’ansia. Mi sento insicura, instabile e indecisa.

Ho dei flashback con i volti dei miei genitori nel momento in cui ci è stato detto di evacuare la nostra casa. Sembrano terrorizzati e impotenti, incapaci di adempiere al loro dovere fondamentale di proteggere i loro figli.

Ho il terrore di perdere qualcuno che amo o beni preziosi guadagnati faticosamente.

Per molto tempo mi ha assillato un senso di pericolo.

Sono ossessionata dall’avere un piano per i prossimi giorni e, a volte, anche per le prossime ore. Se le cose non vanno come avrei voluto, ho attacchi di panico.

Trauma complesso.

Il trauma che ho provato è complesso ed ho deciso che non posso conviverci.

La psicologia occidentale ha limitazioni quando si tratta di quel che hanno vissuto i Palestinesi.

Si sente dire spesso che il disturbo da stress post-traumatico a Gaza è frequente. Il prefisso “post” presuppone che il trauma sia stato superato, quando in realtà è tuttora presente.

Nonostante le limitazioni della psicologia occidentale, ho iniziato la terapia comportamentale cognitiva in Europa occidentale.

Ho iniziato sapendo che il processo di guarigione sarebbe stato lungo e difficile, sopratutto perché la violenza inflitta a Gaza continua. Eppure il processo è stato reso più agevole perché ho trovato il terapeuta giusto, che ha riconosciuto che il mio trauma è allo stesso tempo personale e il risultato di ciò che i Palestinesi hanno vissuto nel corso di molte generazioni.

Il mio trauma fa parte della memoria e della coscienza collettiva dei Palestinesi.

Durante le mie sessioni di CBT, ho avuto modo di imparare di più riguardo alla fonte di tutte le emozioni che provo.

Questo mi ha aiutato a sviluppare una strategia. Cerco di affrontare, accettare ed esprimere le mie paure, invece di evitarle.

Sono costantemente consapevole che dovrei vivere nel presente, piuttosto che lasciare che i ricordi prendano il sopravvento.

La resistenza del mio popolo mi dà la forza e la speranza che mi servono per continuare ad andare avanti.

Il fatto di riconoscere il trauma che ho subito mi ha reso quella che sono oggi ed ha plasmato la mia consapevolezza su altre ingiustizie in tutto il mondo. Mi ha rafforzato.

Guerra psicologica.

Israele conduce una guerra psicologica come parte della sua occupazione. Questo fa parte di una strategia premeditata.

Ariel Sharon, il defunto leader politico e militare israeliano, ha sviluppato una filosofia di quella che è stata chiamata “incertezza continua”.

L’analista Alastair Crooke ha scritto di come – con l’adozione della filosofia di Sharon – Israele si sia “esteso ripetutamente e quindi abbia limitato lo spazio nel quale i Palestinesi possono agire per mezzo di una combinazione imprevedibile di regolamenti mutevoli e applicati in modo selettivo”.

La stessa Palestina è stata disgregata attraverso la costruzione degli insediamenti israeliani e delle reti stradali riservate ai coloni. Tutto ciò ha avuto lo scopo di indurre nei Palestinesi un senso di “temporaneità permanente”, ha scritto Crooke.

La guerra psicologica di Israele è divenuta ancor più estrema con l’operazione Piombo Fuso.

Durante gli attacchi massicci del 2012 e del 2014 compiuti su Gaza, Israele ha adottato tattiche di tormento e di violenza più forti di quelle che aveva utilizzato in precedenza. Le forze israeliane hanno telefonato ai Palestinesi con messaggi ostili, hanno lanciato dagli aerei volantini dal contenuto minaccioso e hanno interrotto i programmi radiofonici e televisivi palestinesi in modo da poter trasmettere la propaganda israeliana.

La decisione della Corte Penale Internazionale di aprire un’indagine sui crimini nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza è significativa. Finalmente, Israele può essere chiamato a rispondere di alcuni dei suoi crimini.

La decisione però solleva anche degli interrogativi.

Perché la CPI ha impiegato così tanto tempo per arrivare a questa decisione?

Perché la CPI ha intenzione di indagare sulle attività dei gruppi armati sia israeliani che palestinesi? Perché tratta “entrambe le parti” – l’occupante e l’occupato – come se fossero uguali?

Perché l’indagine è limitata agli avvenimenti accaduti dopo il giugno del 2014? Il che significa che molti dei crimini di Israele – compresi quelli commessi durante l’operazione Piombo Fuso – sono stati trascurati.

L’impunità di Israele finirà davvero? Le vite dei Palestinesi valgono qualcosa per i governi e le istituzioni più potenti del mondo?

I Palestinesi sanno perfettamente che gli Stati Uniti e l’Unione Europea sono complici dei crimini commessi contro di loro. Si presentano come difensori dei diritti umani, eppure finanziano e permettono le violazioni dei diritti fondamentali dei Palestinesi da parte di Israele.

Alcuni dei protagonisti dell’operazione Piombo Fuso godono di una immeritata rispettabilità.

Gabi Ashkenazi, il comandante militare che ha diretto l’offensiva, ora è ministro degli Esteri di Israele. Questo significa che egli ora ricopre il posto di Tzipi Livni nel 2008 e all’inizio del 2009, quando aveva incoraggiato le truppe israeliane a comportarsi in modo estremamente violento durante l’attacco contro Gaza.

Oggi Livni siede nel consiglio di amministrazione dell’International Crisis Group. Il sito web dell’international Crisis Group sostiene che sta “lavorando per prevenire le guerre e definire le politiche che costruiranno un mondo più pacifico”.

Israele ha sempre agito come se fosse al di sopra del diritto internazionale. Fin da quando è stato fondato, Israele ha trattato i Palestinesi come una “bomba ad orologeria demografica” fin dal momento della loro nascita.

Nonostante Israele abbia sviluppato e messo in pratica una serie di tecniche diverse per contenere e spezzare i Palestinesi, noi non siamo andati via.

Come ha scritto uno dei nostri poeti più importanti, Tawfiq Ziyad:

Qui resteremo

Un muro sui vostri petti

Moriremo di fame, andremo nudi, canteremo canzoni

E riempiremo le strade

Di manifestazioni

E le prigioni con orgoglio

Alleveremo ribellioni

Una dopo l’altra

Come 20 impossibili resteremo

A Lydda, Ramleh, Galilea

Traduzione per InfoPal di Aisha T. Bravi