Quando muore un Palestinese non conta.
Inviato da: "vittorio"
Il 4 gennaio di quest’anno, intorno alle due del pomeriggio, per le
strade di Nablus regnava una calma assoluta, d’altronde era l’ora
delle preghiere pomeridiane.
All’improvviso è apparsa come dal nulla una jeep della polizia di
frontiera israeliana, che ha cominciato a sparare all’impazzata verso
alcuni civili palestinesi che stavano fuggendo, temendo l’ennesima,
sanguinosa incursione dell’esercito israeliano.
A terra, gravemente ferito, resta Ahmad Abu Hantash, soccorso da una
ambulanza della Mezzaluna rossa e portato in ospedale; morirà alcuni
giorno dopo, esattamente il 23 gennaio, per le gravi ferite riportate: Ahmad aveva 22 anni ed era padre di due bambini.
Un esame a raggi-X del cranio del povero ragazzo aveva mostrato, al
suo interno, tre pallottole rivestite di gomma che erano state
sparate contro di lui da dietro ed erano penetrate dalla parte
superiore del collo.
Questo tipo di munizionamento è comunemente usato per disperdere i
dimostranti, ma le regole di ingaggio prevedono che venga sparato a
una distanza non inferiore a quaranta metri, mirando alle gambe.
Al contrario, i valorosi soldatini israeliani hanno sparato alle
spalle ad un uomo che stava fuggendo, senza alcun motivo né alcun
pericolo per la loro incolumità, lasciandolo per terra a sanguinare
come un cane senza nemmeno degnarsi di soccorrerlo: infami assassini!
Alzi la mano chi ha letto questa notizia sui giornali o ne ha sentito
parlare in qualche notiziario televisivo.
Il vero è che, non solo in Italia, la copertura giornalistica dei
fatti di sangue che avvengono in Palestina è assolutamente e
sorprendentemente diversa a seconda del fatto che la vittima sia un
ebreo oppure un palestinese.
Prendendo per assodata la buona fede della categoria e non volendo
supporre che i direttori di giornale, i capi redazione e compagnia
varia siano tutti a libro paga di Israele oppure motivati da
convenienze politiche, si potrebbe allora presumere che l’uccisione
di un Israeliano fa notizia perché meno frequente, mentre i
Palestinesi muoiono ogni giorno e ormai non gliene importa più niente
a nessuno: è la nota teoria secondo cui quando un cane morde un uomo
non fa notizia, mentre il contrario accade quando un uomo morde un
cane
E’ una amara ironia questa, eppure è ciò che accade.
Il 4 febbraio, alle dieci e trenta del mattino, un attentatore suicida si è fatto esplodere nei pressi di un centro commerciale a Dimona, nel sud di Israele, uccidendo un’anziana donna, Lyubov Razdolskaya, e ferendo altri undici civili, tra cui il marito che versa in gravi condizioni.
Da sottolineare che si tratta di un attentato che ha avuto luogo a
distanza di oltre un anno dall’ultimo evento dello stesso genere
accaduto in Israele, l’attentato suicida di Eilat che il 29 gennaio
del 2007 costò la vita a tre Israeliani.
Naturalmente l’attentato ha avuto una immediata risonanza e la dovuta
copertura giornalistica, come è giusto che fosse: l’immancabile
servizio di Claudio Pagliara sui tg Rai, le testimonianze delle
persone scampate per un soffio all’esplosione, l’intervista
all’eroico poliziotto che ha ucciso il secondo attentatore, steso in
terra ferito, che non era riuscito ad azionare il proprio micidiale
dispositivo.
Il giorno successivo, puntuale come le tasse, è arrivata la "rispost
a" di Israele, con ben nove Palestinesi uccisi nel corso della mattinata di martedì, due in un’operazione terrestre dell’Idf svoltasi nei pressi di Rafah, e sette nel corso di un attacco missilistico dell’aviazione israeliana contro una piccola stazione di polizia nella città di Abassan, a est di Khan Yunis; durante quest’ultima azione, dieci Palestinesi sono rimasti feriti, ed alcuni sono ricoverati in condizioni critiche.
Ebbene, in questo caso, nessun video, nessuna testimonianza, mentre i
tg e i quotidiani a maggior diffusione si sono spesso astenuti
persino dal riportare la notizia con un breve accenno o due semplici
righe nella sezione esteri.
Almeno noi diamo un nome a questi poveri morti e ricordiamoli:
Mahmoud Abu Teh, Bakker Abu Ghajal, Rifat Kadih, Ahmed al-Masbah, Wafi Abu Yusef, Maataz Abu Shahala, Osama Abu Saada, Mohammed Abu Saada, Abed a-Nasser Abu Tir.
Non sappiamo e non sapremo mai nulla di costoro, se appartenevano ad
Hamas per convinzione religiosa, per odio a Israele, oppure più
semplicemente per guadagnare qualcosa e portare a casa un po’ di pane
con cui sfamare i propri figli, in una Gaza in cui ormai l’80% dei
residenti dipende dagli aiuti umanitari e in cui il lavoro nel settore privato praticamente non esiste più.
Sappiamo soltanto che sono morti, i loro corpi dilaniati dai missili
high-tech dell’aviazione israeliana, uccisi da un furore omicida e da
un crimine altrettanto bestiale di quello di un attacco kamikaze
contro civili inermi: naturalmente, con la consueta sproporzione nel
numero dei morti e nella devastazione.
All’eroica azione dell’aviazione israeliana, un lancio di missili
contro dei poliziotti indifesi e per di più intenti nelle preghiere
quotidiane, ha assistito anche il Presidente israeliano Shimon Peres,
la "colomba" che in età senile si è trasformata in uno spietato
guerrafondaio.
Comodamente seduto nel quartier generale dello Shin Bet ha potuto
osservare con compiacimento gli aerei israeliani portare morte e
distruzione, complimentandosi poi con gli ufficiali presenti, da lui
definiti "lo scudo difensivo (sic) di Israele".
Ma si sa, la migliore difesa è l’attacco
Chi si limitasse a seguire gli accadimenti in Palestina semplicemente
attraverso quanto riportato dai media di casa nostra, stenterebbe a
credere che, nel solo periodo compreso tra il 27 dicembre e il 6
febbraio di quest’anno, l’esercito israeliano ha ucciso ben 107
Palestinesi e ne ha feriti 299, tra i quali anziani, donne, bambini.
Si tratta di un lento ma costante massacro, compiuto dalla feccia dei
soldati dell’Idf lontano dall’attenzione e dal controllo della
pubblica opinione, grazie alla copertura fornita dall’assoluto
silenzio della stampa internazionale sui crimini ascrivibili ad
Israele.
Possiamo qui fare un breve ed esemplificativo elenco di questi
crimini brutali e spietati, che mostrano l’assoluto disprezzo dei
soldati israeliani per il valore della vita umana (altrui):
– il 3 gennaio, in un villaggio nei pressi di Khan Yunis, i carri
armati israeliani prendevano a cannonate la casa di un membro delle
Brigate al-Quds, Sami Hamdan Fayadh, uccidendolo sul colpo; insieme a lui, tuttavia, morivano altri 4 civili innocenti, la moglie Karima,
di 59 anni, i fratelli Ahmed e Asmaa’, rispettivamente di 32 e 22
anni, il cugino Mohammed, di 18 anni.
– il 6 gennaio, durante una incursione nel campo profughi di al-
Bureij, nella Striscia di Gaza, l’esercito israeliano sparava
indiscriminatamente contro la popolazione del campo, uccidendo 4
Palestinesi e ferendone altri 40, tra cui 3 donne e 15 bambini;
trovavano così la morte, tra gli altri, il 16enne Ziad Isma’il Abul
Rukba e la 25enne Iman Hamdan.
– il 16 gennaio, nel corso di una esecuzione poco "mirata"
dell’aviazione israeliana, un missile centrava un auto che percorreva
una via di un sobborgo di Gaza, sterminando i tre civili innocenti
che la occupavano, il 27enne Mohammed al-Yazji, il figlioletto Ameer,
di 5 anni, il fratello `Aamer, di 40 anni: inutile specificare che i
loro corpi sono stati orribilmente smembrati e devastati.
– il 17 gennaio, nel corso di una ennesima esecuzione mirata, un
aereo israeliano lanciava due missili contro l’auto di Ra’ad Shihda
Abu Fuol, un membro delle Brigate al-Quds, uccidendolo sul colpo, ma
uccidendo anche una sua amica, la 35enne Fatheya Yusef al-Hassoumi.
– sempre il 17 gennaio, verso le 7 della sera, un missile israeliano
esplodeva a breve distanza da un carretto trainato da un mulo,
uccidendo la 52enne Miriam Mohammad Ahmad al-Rahel ed il figlio
22enne Mohammad, e provocando il ferimento di altri 6 civili che si
trovavano nei pressi, tra i quali due bambini.
– il 18 gennaio, l’aviazione israeliana bombardava un edificio
governativo di cinque piani, situato nel popoloso quartiere Tal al-
Hawa a sud-ovest di Gaza City; l’onda d’urto e le schegge
dell’esplosione investivano anche gli edifici civili circostanti, in
uno dei quali si stava svolgendo un ricevimento nuziale; moriva così
la 52enne Haniya Hussein `Abdul Jawwad, mentre altri 46 Palestinesi
restavano feriti, tra cui 3 donne e 19 bambini.
– il 28 gennaio, a Betlemme, nel corso di un raid, i soldati di
Tsahal sparavano indiscriminatamente contro la folla, uccidendo il
16enne Qussai Suleiman Mohammed al-Afandi, che stava raggiungendo suo padre nel negozio di famiglia.
Ancora ieri mattina, nel corso di varie incursioni nella Striscia di
Gaza, i soldati israeliani hanno ucciso altri 7 Palestinesi, tra cui
un insegnante investito dalle schegge di un missile davanti alla sua
scuola a Beit Hanoun; nel medesimo "incidente", anche tre alunni del
povero insegnante sono rimasti feriti.
Ci si sarebbe aspettato, a questo punto, davanti all’evidenza
numerica di un massacro che sembra non trovare più limiti, con oltre
100 morti e 300 feriti causati dai ripetuti raid dell’esercito
israeliano in poco più di 40 giorni, un deciso intervento della
comunità internazionale, volto a imporre a entrambi i contendenti, ma
soprattutto a quello più forte, un immediato cessate il fuoco e la
fine degli attacchi alla popolazione civile, esercitando le dovute
pressioni con ogni mezzo, incluse sanzioni politiche ed economiche.
Ed invece, incredibilmente, gli attori che in qualche modo hanno voce
nel conflitto israelo-palestinese, l’Onu, il "Quartetto", i governi
occidentali, con un incredibile e diabolico sovvertimento della
realtà, continuano a raffigurare Israele come la vittima di una "aggressione" e i Palestinesi come biechi "terroristi", legittimando come necessaria autodifesa i raid criminali dell’esercito israeliano e, tutt’al più, chiedendo solo a Israele anzi pregandolo di non affamare e di non lasciare al buio e senz’acqua la popolazione civile di Gaza.
Bontà loro
Così Robert Serry, il Coordinatore Speciale dell’Onu per il processo
di pace in Medio Oriente (UNSCO), qualche ora dopo l’attentato a
Dimona ha avuto modo di dichiarare la propria solidarietà alle
vittime dell’attacco terroristico e, citando anche Sderot, costretta
a subire una "pioggia di razzi da Gaza", ha affermato: "L’Onu
condanna il terrorismo; niente può giustificare simili attacchi".
Il che si potrebbe anche condividere, eppure suona alquanto sospetto
se si considera che il signor
Serry non ha mai trovato modo e tempo
di spendere una parola per gli oltre 100 Palestinesi morti in
questo inizio di anno, né risulta aver mai espresso solidarietà e
comprensione per le vittime innocenti della furia bestiale di
Israele, per la famiglia al-Yazji distrutta dai missili, per la donna
morta mentre era al ricevimento nuziale del nipote o per quella
uccisa mentre tornava a casa con il suo povero carretto trainato da
un mulo.
Analogamente, l’ottimo Segretario Generale dell’Onu Ban Ki-Moon,
durante una conferenza stampa svoltasi a New York il 5 febbraio, ha
avuto modo di sostenere di "rendersi conto e di comprendere le
preoccupazioni di Israele per la sicurezza", chiedendo ai Palestinesi
la cessazione del lancio dei Qassam e a Israele di alleviare
le "difficoltà umanitarie" (sic) in cui versa la popolazione della
Striscia di Gaza.
Fa quasi tenerezza il povero Segretario Generale il quale, pur di non
urtare la suscettibilità di Israele (e degli Usa), non sa più dove
voltarsi e, nel rispondere alla semplice domanda se l’Onu consideri
ancora Gaza come "territorio occupato", non ha saputo fare altro che
bofonchiare di non essere nella condizione di rispondere su
tali "questioni giuridiche".
E, tuttavia, non possiamo fare a meno di notare che simili prese di
posizione e, in specie, la reiterata omissione della denuncia dei
crimini di guerra israeliani, rappresenta il via libera della comunità internazionale alla politica delle eliminazioni mirate e degli attacchi indiscriminati contro la Striscia di Gaza portata avanti da Israele.
Per un esame sommario delle posizioni degli Usa e dei governi europei
in materia peraltro non dissimili da quella del Segretario Onu si
potrà dare uno sguardo al resoconto della riunione del Consiglio di
Sicurezza dell’Onu del 30 gennaio, dove le rispettive posizioni sono
espresse con chiarezza; un cenno di rilievo merita la dichiarazione
del rappresentante italiano Marcello Spatafora, il quale ha almeno
ritenuto di sottolineare come i civili palestinesi non possano
costituire le vittime di "attacchi indiscriminati".
Sembrano ormai lontani, purtroppo, i tempi in cui il Segretario
Generale dell’Onu era Kofi Annan, che non perdeva occasione per
ricordare come le esecuzioni "mirate" siano del tutto illegali, in
quanto costituiscono una "execution without a trial", una arbitraria
condanna a morte eseguita senza un processo, una giuria, una prova.
Oggi, invece, può tranquillamente accadere che Tzachi Hanegbi,
Presidente della Commissione Difesa e Affari esteri della Knesset,
chieda a gran voce l’assassinio dei leader politici di Hamas e
nessuno trovi niente da ridire.
Provate soltanto a immaginare cosa accadrebbe se qualche
rappresentante di Hamas osasse invocare l’assassinio di Olmert o di
Peres in risposta ai crimini di guerra commessi dall’esercito
israeliano
Il vero è che ancora oggi la posizione degli Usa, e purtroppo anche
della Ue, è fin troppo sbilanciata a favore di Israele, e i governi
occidentali, lungi dal proporsi come honest brokers del conflitto
israelo-palestinese, si comportano piuttosto come un arbitro di un
incontro di boxe che vieta a uno dei contendenti di combattere,
mentre lascia libero l’altro di scagliargli contro una scarica di
pugni, con l’unica avvertenza, anzi preghiera, di non colpire se
possibile sotto la cintura.
Un giorno il tribunale della storia condannerà anche noi per questa
incredibile omissione di soccorso dei Palestinesi, un intero popolo
affamato, terrorizzato, massac
rato.
Ma non è questa la cosa più grave.
In queste condizioni, un giorno sarà chiaro a tutti i Palestinesi che
non esiste una via politica alla libertà e alla autodeterminazione,
che non è all’orizzonte né vicino né remoto la creazione dello
Stato Palestinese, e sempre più vi saranno uomini e donne pronti a
seguire il fascino della "bella morte", la morte del kamikaze, spinti
dalla disperazione, dall’odio, dalla miseria o, se preferite, dal
fanatismo religioso.
L’attentato di Dimona poteva avere conseguenze ben più gravi; la
morte di una sola persona in un attentato, pure avvenuto in un centro
commerciale affollato, e la mancata esplosione di uno dei corpetti
esplosivi mostrano come gli ordigni fossero stati fabbricati con una
certa inesperienza, e lascia, altresì, qualche dubbio sui report
dell’intelligence israeliana che vorrebbero contrabbandati nei
Territori palestinesi quantità inverosimili di materiale bellico: ci troveremmo a piangere ben più di una vittima.
Niente a che vedere con le quantità di esplosivo e le "professionalità" largamente disponibili per i sanguinosi attentati in Iraq.
Ma, presto o tardi, i Palestinesi potrebbero ottenere queste e
quelle, e allora ci ritroveremmo in una spirale senza fine di morte e distruzione che solo un approccio imparziale e determinato al conflitto israelo-palestinese, da parte della comunità internazionale, sarà in grado di interrompere.
(http://palestinanews.blogspot.com/2008/02/quando-muore-un-
palestinese-non-conta.html