InfoPal. Di Lorenzo Poli.Storia del vessillo arabo.
La bandiera palestinese, definita in arabo علم فلسطين, non nasce inizialmente come bandiera della Palestina, bensì come vessillo progettato da Sharif Hussein per la rivolta araba contro l’Impero Ottomano nel 1916. Nel 1917 la bandiera diventa simbolo del Movimento Nazionale Arabo. Il 18 ottobre 1948, il Governo della Palestina adotta questa bandiera a Gaza contro il sionismo e il colonialismo israeliano e la Lega Araba la riconosce come bandiera provvisoria del popolo palestinese. Solo nel 1964 l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina la riconosce ufficialmente come la bandiera del popolo palestinese, mentre il 15 novembre 1988 l’OLP adotta definitivamente come la bandiera dello Stato di Palestina. Il 30 settembre 2015, la bandiera della Palestina è stata issata per la prima volta presso la sede delle Nazioni Unite a New York, come gesto simbolico.
La bandiera è costituita da tre strisce orizzontali pari (nero, bianco e verde da cima a fondo) sovrapposto da un triangolo isoscele rosso sulla sinistra. I colori delle bande orizzontali rappresentano rispettivamente i califfati abbaside, omayyade e fatimide, mentre il triangolo rosso rappresenta la dinastia hashemita e la rivolta araba.
La bandiera è quasi identica a quella del partito Ba’ath e molto simile alla bandiera della Repubblica Democratica Araba dei Sahrawi, alla bandiera del Sudan e della Giordania in quanto tutti questi traggono la loro ispirazione dalla bandiera della Rivolta Araba contro il dominio Ottomano (1916-1918).
La bandiera palestinese è simbolo di violenza?
Dopo i fatti del 7 ottobre 2023, con l’apertura del conflitto tra Hamas e l’esercito israeliano, in modo tout court la solidarietà è stata rivolta a Israele. Addirittura in Italia il giorno stesso Palazzo Chigi ha proiettato la bandiera israeliana sulla sua faccia in segno di solidarietà. Peccato che la realtà sia ben altra.
Mentre il mainstream elogiava Israele mostrando in solidarietà la bandiera, chi invece solidarizzava con il popolo palestinese per tutti i soprusi che aveva subito postava le bandiere palestinesi in segno di liberazione di un popolo dall’oppressione coloniale.
Eppure secondo molti benpensanti del momento, postare la bandiera palestinese sarebbe stato un simbolo di violenza, un modo per festeggiare i morti per mano di Hamas, un modo per inneggiare ad azioni di violenza intenzionali e addirittura “atti terroristici”, che non si dovrebbero mai sostenere da qualunque parte vengano. Secondo questi “intellettuali”, intrisi di provincialismo, “la Storia dà sempre ragione e torto a entrambe le parti, oggettivamente”. Sebbene si possa parteggiare per l’una o per l’altra parte, mai si deve “festeggiare per delle stragi, soprattutto pubblicamente”. Queste frasi intrise di bontà e “neutralità” in realtà ritraggono perfettamente la visione ideologica che abbiamo assunto, attraverso il mainstream, del conflitto israelo-palestinese.
Da quando sventolare la bandiera palestinese significa inneggiare ai morti e alla violenza? La bandiera palestinese nelle manifestazioni in Italia e in Europa ha avuto solo una grande connotazione storica: la resistenza del popolo palestinese e la sua liberazione dall’occupazione, dal sionismo, dal colonialismo, dall’apartheid razzista, dalla violenza militare e dall’islamofobia sistematiche di Israele. Tutte cose che anche l’ONU condanna.
Sventolare la bandiera d’Israele e mostrarla invece significa sostenere Israele e quindi appoggiare semplicemente ciò che fa. Mostrare la bandiera palestinese significa al massimo esprimere solidarietà alla causa palestinese e ad un popolo che da 75 anni vive sotto un regime di apartheid razzista e coloniale, ovvero Israele.
In questi 75 anni è stato il silenzio a creare più danni: il silenzio di fronte alle morti palestinesi, silenzio di fronte alle sistematiche azioni di repressione e violenza intenzionali nei confronti dei palestinesi. Il silenzio ha giustificato la costruzione illegale del muro cisgiordano e degli insediamenti coloniali nei Territori Palestinesi Occupati che violano gli Accordi di Oslo del 1993. Il silenzio giustifica e normalizza gli atti terroristici fin dalla Nakba contro i palestinesi, prima con Haganah e Irgun e poi tutti gli attacchi “Price Tag” di oggi, con coloni che ogni giorno saccheggiano, distruggono e profanano luoghi di culto palestinesi come la Moschea di Al-Aqsa, coltivazioni di ulivi e za’atar e le loro abitazioni con il silenzio compiacente dei media occidentali.
Perché tutti questi benpensanti si scandalizzano per la bandiera palestinese e non si scandalizzano per la bandiera israeliana che è simbolo di tutto questo? Perché questo entusiasmo nel condannare la “violenza palestinese” – ovvero l’apice della disperazione di un popolo – non si è mai visto nel condannare la pulizia etnica del 1948, per esempio? Perché non lo si ha nel condannare uno Stato colonialista e razzista senza Costituzione e basato sul teocon che viola i diritti umani di un popolo? Perché forse questi benpensanti sono convinti che sia “la grande democrazia del Medioriente” sotto attacco da “barbari arabi”?
La storia non è mai “neutrale”.
Davvero siamo convinti che Israele sia la vittima in tutto questo? La normalizzazione di Israele come “democrazia” è un danno alla storia. Il silenzio stampa sulla causa palestinese e sul regime di apartheid razzista, ancora peggio. L’operazione mediatica che vuol far passare “terrorismo” ciò che è “resistenza” è grave e nemica della verità storica. Saremmo contenti, oggi, se i partigiani venissero definiti “terroristi”? Molto probabilmente con i tempi che corrono sì, ma sarebbe gravissimo e non ammissibile. La storia, direbbe Gramsci, insegna ma non ha allievi e l’indifferenza di massa a tutto questo – spesso incitata da discorsi retorici e perbenisti che ci rinchiudo nella nostra comfort-zone – è forse la chiave per far normalizzare i peggior crimini.
Non è vero che la storia rimane neutrale, o per lo meno non tutti gli storici concordano sul fatto che la storia dia “oggettivamente” ragioni e torto da entrambe le parti. Alessandro Barbero, per esempio, sostiene che nella storia esistono oppressi ed oppressori. Dal 70 d. C con la diaspora, gli ebrei sono andati nel mondo e dopo mille anni, con il Congresso Sionista di Basilea del 1897, hanno rivendicato una terra prendendo come fonte il Talmud e la Torah: prima iniziando le colonizzazioni, dal 1900 fino al 1948, e in seguito sterminando la popolazione presente portando alla Nakba e alla “diaspora palestinese”. Gli ebrei arrivati trovarono inizialmente accoglienza da parte araba, ma poi decisero che era meglio prendere i propri spazi da occidentali ed iniziarono con le violenze. Il sionismo si sostituì progressivamente al colonialismo inglese al fine di de-arabizzare la Palestina commettendo pulizie etniche. Queste non sono invenzioni, ma è la storia che oggi Israele – come ha documentato la storica israeliana Nurit Peled – ha cancellato dai suoi libri di storia portando avanti un revisionismo senza precedenti con il fine di riscrivere una nuova storiografia.
Questa è la storia che purtroppo ignoriamo, ma a confermare questo ci sono le ricerche di uno dei più grandi studiosi del Medioriente, lo storico israeliano Ilan Pappe, professore nel Dipartimento di Storia dell’Università di Exeter, nel Regno Unito, co-direttore del Centro per gli Studi Etno-Politici, fondatore dell’Istituto per la Pace a Givat Haviva in Israele fra il 1992 e il 2000, e professore presso l’Istituto Emil Touma per gli Studi Palestinesi di Haifa (2000-2008).
La bandiera palestinese come simbolo politico.
Sebbene le scuole italiane inizino oggi a trattare di questi temi e rendano giustizia a molti fronti, la strada da percorrere è ancora molto lunga, soprattutto perché ormai le scuole non inducono al senso critico i propri alunni e a parteggiare, ma insegnano piuttosto l’ignavia e il rimanere nel limbo: una “terza via” che agli studenti può giovare perfettamente nella società industriale di massa e nel mondo del lavoro dove servono solo esclusivi funzionari d’apparato e non gente che dissente e si mette in gioco per un mondo migliore libero da ingiustizie.
Per alcuni benpensanti fare cultura, oggi, significa “parlare il più possibile senza schierarsi”; sensibilizzare significa “parlare di numeri, dati, non veicolare un pensiero attraverso un vessillo”. Questa forte de-politicizzazione dell’essere umano da parte dell’istituzione scolastica è grave perché da luogo delle idee sta passando a luogo di mera osservazione del presente senza critica e senza azione.
Per questi benpensanti, sventolare la bandiera palestinese sarebbe, dunque, il tentativo populista di “banalizzare una situazione drammatica”, di ridurla a “tifo calcistico da stadio” e di sminuire questo tremendum della cultura. Molto intelligentemente questi benpensanti – capendo loro stessi che queste loro posizioni sono infantili – si giustificano dicendo che “queste cose non le pensano”, ma è piuttosto “l’uomo medio che non capisce e che potrebbe interpretare lo sbandierare i vessilli palestinesi con il fatto che prendere in mano le armi è giusto”. Sggiungendo che “se vogliamo far arrivare un messaggio, dobbiamo veicolarlo correttamente, altrimenti si finisce sullo stesso piano di qualsiasi negazionista di qualsiasi tragedia avvenuta sulla faccia della Terra”.
Davvero tutto questo passerebbe solo mostrando una bandiera in solidarietà ad un popolo oppresso? Evidentemente l’opinione pubblica italiana è in una situazione “grave, ma non seria”, come direbbe Flaiano, ma c’è di più, ovvero il doppio standard occidentale.
E’ il doppio standard occidentale di cui è intrisa l’opinione pubblica e l’informazione, a creare grande banalizzazione nell’opinione pubblica stessa.
Basta confrontare le diverse reazioni dell’opinione pubblica, eterodirette dal mainstream, con la guerra in Ucraina e il conflitto israelo-palestinese: se l’Ucraina attacca è “legittima difesa”, se attacca la Palestina è “terrorismo”; se Israele attacca Gaza è sempre “legittima difesa”, se la Palestina risponde è “terrorismo”; se Putin attacca è “il nuovo Hitler” o lo “Zar”, se Zelensky attacca è perché deve resistere ad un’invasione; se Israele attacca e Hamas risponde comunque il doppio standard ci porta a definire un “buono” e un “cattivo”. Questo perché la propaganda bellica è il più grande successo dei media, i quali hanno scoperto che basta dare agli spettatori la parvenza di uno “spettacolo integrato”, con buoni e cattivi, per tenere a bada l’opinione pubblica.
Quelli che oggi parlano della bandiera palestinese come simbolo di violenza, sono gli stessi che aderiscono involontariamente a questa narrazione paradossale.
Se è vero che postare una bandiera è simbolo di populismo, questi due anni di guerra in Ucraina – dove i social si sono riempiti di bandiere ucraine da parte di chi il giorno prima non sapeva neanche dell’esistenza dell’Ucraina e non ne conosceva uno stralcio di storia – ne sono stati un tragico esempio. Spesso sono stati proprio quei benpensanti, che criticano la bandiera palestinese, a postare le bandiere ucraine senza sapere che stavano postando la bandiera di chi, dal 2014, fa pulizia etnica sistematica della minoranza russofona nel Donbass avvalendosi del suo esercito nazionale e dei battaglioni paramilitari volontari dichiaratamente neonazisti inneggianti alla “razza bianca ariana”.
Se è vero che i simboli nelle lotte politiche possono essere simboli populisti, è anche vero che dipende da cosa significano, da come si usano e soprattutto dai contesti in cui si usano.
La bandiera palestinese, al contrario, è il simbolo usato da chi solidarizza con la causa palestinese, con un popolo oppresso, contro il razzismo e il colonialismo e per i diritti umani. La bandiera palestinese, al contrario, non è vessillo di violenza, ma di pace.