Il cerchiobottismo è dannoso per la causa palestinese

InfoPal. Di Lorenzo Poli. Il 5 maggio 2023, InfoPal e Palestine Chronicle hanno scritto un comunicato congiunto in cui ribadivamo il nostro “sforzo giornaliero per riprendere ed enfatizzare una metodologia di comunicazione anti-coloniale (…) per denunciare le riletture distorte del mainstream occidentale, del cerchiobottismo vago ed equidistante di molti media e della grande stampa, e la connivenza del giornalismo embedded”. Abbiamo inoltre ribadito che nel nostro modo di fare giornalismo professionista e militante non è “ipotizzabile l’equidistanza, soprattutto nella situazione israelo-palestinese, che equivarrebbe – senza ombra di dubbio – ad essere dalla parte del più forte”

Se essere equi significa valutare la situazione nella sua oggettività, essere equidistanti significa o essere in malafede, o non conoscere la situazione, o essere in buonafede senza volersi schierare troppo temendo ritorsioni, o non conoscere il significato del termine nella sua applicazione specifica.

In questa settimana, oltre a chi si è schierato chiaramente dalla parte del sionismo e dal regime coloniale e razzista di Israele, c’è anche chi – pur condannando le politiche razziste, ultranazionaliste e liberticide di Netanyahu o l’occupazione coloniale che Israele attua contro il popolo palestinese – tende a stare nel limbo per paura di schierarsi apertamente.

L’11 ottobre 2023, in collegamento con il programma In altre parole, il giornalista Gad Lerner ha dichiarato: “Finisce una grande illusione, sono 56 anni che Israele occupa territori abitati da milioni di palestinesi e si illude di poter custodire una democrazia domestica però negandone allo stesso tempo il diritto all’autodeterminazione del vicino di casa”. Gad Lerner, di origine ebrea e che “ama Israele” – come ha dichiarato -, ha chiaramente sottolineato il punto debole della “democrazia israeliana” e criticato l’occupazione coloniale di Israele nei confronti della Palestina.

Sebbene Lerner critichi aspramente l’occupazione illegale delle terre palestinesi, il problema è un altro. Il problema sta, come lui dice, nel definire Israele una “democrazia”: “Israele è una democrazia, oggi pericolante, oggi molto lacerata”. Dire che Israele è una democrazia e riconoscere che sia una democrazia in crisi, non è di per sé una critica, ma un aspetto positivo. Il problema dunque sta nei presupposti, ovvero considerare Israele come una “democrazia” nonostante il razzismo sistematico, l’islamofobia sistematica, l’apartheid strutturale, l’occupazione coloniale, la militarizzazione dei territori, la colonizzazione degli insediamenti illegali, le violazioni costanti del diritto internazionale, il mancato rispetto di tutte le mozioni ONU, le quotidiane violenze dell’IDF e dell’IOF verso la popolazione palestinese, gli espropri arbitrari condotti da Israele delle abitazioni palestinesi e la costruzione del muro cisgiordano di cui l’ONU sollecita da anni lo smantellamento in quanto illegale.

Si può definire “democratico” uno Stato che compie queste azioni? Si può definire “democrazia” uno Stato senza Costituzione e basata sul teocon e la cui giustizia è amministrata da tribunali religiosi quali il Gran Rabbinato? Se le ingiustizie, che Israele compie verso i palestinesi, fossimo noi a subirle, riusciremmo ancora a chiamarla “democrazia”?Se fossimo tutti noi le vittime saremmo i primi a definirla regime autoritario.

La posizione cerchiobottista secondo cui si può criticare Israele per il suo settantennale colonialismo, ma si continua a definirlo come “democrazia” è un atteggiamento equidistante che prende posizioni senza però schierarsi veramente andando a fondo delle radici dell’oppressione che la Palestina subisce. A questo punto sarebbe più coerente definire Israele come “democrazia liberale”, o “democrazia di mercato, o “democrazia capitalista”, termini che ormai hanno la funzione di sottolineare la deriva autoritaria delle democrazie occidentali, spinte più verso gli interessi dei grandi capitali disprezzando chi parla di diritti sociali, giustizia sociale e diritti umani.

Detto ciò, definire Israele come una “democrazia” è errato in quanto c’è chi ai valori democratici crede ancora e sono ben lontani da quello che sostiene Israele.

Altro esempio sono le dichiarazioni di Marco Travaglio, uno dei pochi giornalisti fuori dal coro del mainstream che con Il Fatto Quotidiano cerca di portare il mainstream su un altro livello più chiaro e limpido senza troppe retoriche. Sebbene Travaglio abbia una posizione netta in cui denuncia l’oppressione coloniale di Israele sulla popolazione palestinese, dicendo che le origini di questi nuovi scontri non sono da far ricadere su Hamas, bensì su 75 di occupazione sionista; dall’altra parte parla di Hamas come un movimento terrorista da condannare e che sarebbe responsabile delle decapitazioni dei bambini israeliani. La notizia delle decapitazioni da parte di Hamas è stata un’opera di disinformazione lanciata dall’hasbara e diffusasi sul mainstream occidentale – una notizia che è stata ormai accertata come falsa: le decapitazioni, se ci sono state, non sono avvenute ad opera di Hamas.

Questo è un esempio di equidistanza. Riconoscere Hamas come movimento terrorista e non come un movimento palestinese di lotta armata per la liberazione nazionale della Palestina, significa in qualche modo riproporre le logiche dell’orientalismo coloniale del XIX secolo: ci piace la cultura araba, ma gli arabi molto meno; ci piacciono di più i palestinesi che rimangono vittime, piuttosto dei palestinesi che si ribellano.

In confronto all’ingiustizia che il popolo palestinese subisce, noi come occidentali non abbiamo alcun diritto di giudicare quando e come i palestinesi si devono o non si devono ribellare. Non possiamo calibrare la quantità di ribellione espressa proprio perché non siamo noi a subire quell’oppressione e dunque non sappiamo fino a che punto può generare disperazione.

Una cosa è certa: è più estremista l’oppressione della rivolta che gli oppressi mettono in atto contro di essa e, di fronte a questo, non si può essere equidistanti.

Il cerchiobottismo, che caratterizza alcuni settori dell’informazione, è un danno collaterale alla causa palestinese. Pur non essendo sullo stesso piano di chi nega l’oppressione coloniale di Israele, il rischio è quello di minimizzare. Al posto di stare da una parte o dall’altra della barricata si rischia di diventare la barricata, non prendendo una posizione netta e barcamenandosi tra due comportamenti antitetici.

Di fronte alla sistematicità dell’oppressione, dello sfruttamento, del colonialismo, delle cancellazioni culturali, del razzismo e della violenza economica, non si deve rimanere equidistanti.