Il “sogno ebraico” si trasforma in incubo: l’“Israele immaginario” affronta il momento della verità

Attivisti ebrei con in mano uno striscione contro l’occupazione israeliana. (Foto: dalla pagina Facebook dei cristiani palestinesi).

Palestine Chronicle. Di Ilan Pappé. La definizione di Israele come stato di apartheid da parte di Amnesty International e Human Rights Watch è il risultato di un lungo processo di elaborazione e riformulazione della questione palestinese. Il processo è stato sia politico che accademico. È iniziato con un gruppo di studiosi palestinesi che hanno formato, nel 1965, il Centro di Ricerca dell’OLP a Beirut e, tra questi, accademici come Fayez Sayigh e Ibrahim Abu Lughod hanno introdotto l’applicazione del paradigma coloniale al caso della Palestina.

In seguito, Uri Davis, nella sua opera principale su Israele, ha chiarito il posto che occupa l’apartheid all’interno dei metodi utilizzati dal movimento coloniale sionista e dallo Stato di Israele per l’attuazione della logica principale che si trova in qualsiasi progetto coloniale, ossia “L’eliminazione dell’indigeno”.

Il lavoro del Centro di Ricerca dell’OLP ha contribuito a spiegare la differenza che esiste tra il classico colonialismo di sfruttamento e la varietà coloniale che invece ha operato in Nord America, Australia e in altri luoghi nei quali l’obiettivo principale dei colonizzatori europei era quello di spostare, o eliminare, la popolazione nativa sostituendola.

Un ulteriore sviluppo nello studio del colonialismo si è avuto quando negli anni ‘90 alcuni studiosi prevalentemente australiani (come Patrick Wolfe e Lorenzo Veracini), interessati e impegnati in Palestina, hanno individuato nuove caratteristiche del colonialismo implementato in epoca attuale: principalmente si tratta della sua natura strutturale. Nel caso della Palestina, ciò significa che la stessa ideologia che ha caratterizzato la pulizia etnica del 1948 e il desiderio sionista di eliminare i Palestinesi, sta caratterizzando l’assedio di Gaza, l’ebraicizzazione di parti della Cisgiordania e della Grande Gerusalemme e il sistema di apartheid all’interno di Israele.

Questa ricerca e i successivi lavori di studiosi palestinesi e di studiosi interessati alla Palestina hanno anche contribuito a chiarire cosa accade ai movimenti coloniali come il sionismo quando non riescono ad attuare pienamente il loro programma di pulizia etnica, come è avvenuto nel 1948. L’obiettivo di eliminare completamente la popolazione autoctona non scompare quando esso fallisce. Da notare che il fallimento venne causato nel 1948 grazie alla resilienza e alla resistenza dei Palestinesi, nonostante l’aiuto minimo che ricevettero dal mondo arabo, in particolare dalle associazioni e ancor meno dai singoli governi.

Il fatto che metà del popolo palestinese sia rimasto in Palestina, nonostante la Nakba, e che Israele nel 1967 abbia occupato il restante 22% delle terre che non era riuscito a conquistare nel 1948, ha permesso che anche una massiccia pulizia etnica – come quella perpetrata da Israele durante la guerra del giugno ’67 e negli anni successivi – non sia riuscita a produrre quella “terra deserta” che i sionisti sostenevano esistesse prima del loro arrivo. Né è stato possibile fondare uno stato democratico senza che vi fosse la volontà di far parte di un’autentica entità democratica palestinese e non sionista. 

Così, per assurdo, il fallimento delle pulizie etniche del 1948 ha portato alla creazione dello stato di apartheid israeliano, dapprima all’interno dei confini precedenti al 1967 e oggi in tutta la Palestina storica.

Si sarebbe potuto pensare che questo fallimento avrebbe messo a nudo la natura del regime e l’essenza del problema nella Palestina storica. In un certo senso, molti stati africani, asiatici e arabi hanno riconosciuto questa realtà nel 1975, approvando una risoluzione delle Nazioni Unite che ha equiparato il sionismo al razzismo.

Eppure, l’Occidente non sembra aver colto questa realtà, oppure l’ha colta ma ha deciso di ignorarla. Questa negazione è stata fatta utilizzando due motivazioni: una era la temporaneità – l’apartheid israeliana avrebbe cessato di esistere una volta che si fosse trovata la pace con i Palestinesi (e quindi la sua mancanza era colpa dei Palestinesi) – e seconda, e più importante, che l’apartheid sionista era un’eccezione e doveva pertanto essere esente dal biasimo internazionale.

Questo è stato il successo e l’importanza della sinistra sionista, ormai arrivata ai suoi ultimi giorni di vita. L’élite politica e i media occidentali hanno ribadito con insistenza che il colonialismo, il razzismo o l’apartheid, se sono ebraici, sono particolari e quindi non possono essere trattati alla stessa stregua di quando questi atteggiamenti e ideologie sono approvati o esercitati da indù, musulmani o cristiani. È per questo che gli ossimori di una pulizia etnica liberale, di un occupante progressista e di un genocida illuminato sono stati facilmente accettati dall’Occidente come vie praticabili.

Questo particolarismo è stato fondamentale per le comunità ebraiche in Occidente, soprattutto per gli ebrei americani. Attraverso questa duplice argomentazione, sono stati in grado di evocare un “Israele immaginario”: una democrazia fiorente, dove persino il razzismo, la pulizia etnica, il genocidio e l’oppressione sono talmente originali da non riuscire nemmeno a rovinare il sogno.

Il lavoro accademico che ha dimostrato la validità scientifica dell’apartheid israeliano, l’incredibile lavoro svolto dalle organizzazioni palestinesi per i diritti umani e l’impressionante successo del movimento BDS hanno reso molto difficile il fatto di continuare a sostenere il sogno dell'”Israele immaginario” – che finché gli ebrei ci crederanno continueranno purtroppo a sostenere, sia materialmente che moralmente.

I risultati delle ultime elezioni israeliane, la probabile composizione del governo e le dichiarazioni fatte finora sulle sue politiche future non solo hanno rovinato il sogno, ma lo hanno trasformato, o avrebbero dovuto trasformarlo, in un incubo ebraico.

Il tempo dirà quale sarà l’impatto di questo nuovo sviluppo. Ma questo è un momento di verità per gli ebrei di tutto il mondo. Le vecchie argomentazioni che sostengono che altrove si stanno verificando atrocità peggiori, o che i Palestinesi sono da incolpare per i crimini commessi contro di loro, suonano oggi così assurde e ridicole che, in effetti, una generazione ebraica più giovane trova sempre più difficile mantenere la propria fedeltà passata al sionismo o ad Israele.

Non ci siamo mai accontentati, e giustamente, dell’indifferenza tedesca ai crimini nazisti commessi contro il popolo ebraico. Come individui o attraverso le istituzioni, sentivamo di dover chiedere un risarcimento, un riconoscimento e un impegno per una Germania e un’Europa che fossero democratiche e non razziste. Israele ha usurpato alcune di queste richieste giustificate del popolo tedesco e ne ha abusato per salvaguardare le proprie politiche attuate contro i Palestinesi. Purtroppo, il sistema politico tedesco ha assecondato questa manipolazione che viola la sacralità della memoria dell’Olocausto e mina il processo di riconoscimento e riconciliazione.

Ma con questo nuovo governo e le sue politiche, assieme all’enorme sostegno di cui gode in Israele per il suo fascismo e razzismo e per i suoi piani di consolidamento e legittimazione dell’apartheid e della colonizzazione israeliana, può davvero qualsiasi ebreo, che abbia ancora un briciolo di decenza, continuare a sostenere e mercificare un “Israele immaginario” che non è mai esistito e mai esisterà?

Quando i crimini vengono commessi in tuo nome, anche se non sei direttamente coinvolto, è tuo dovere, in quanto essere umano, ribadire “Non in mio nome”, e da ciò un altro significativo cambiamento nell’impegno internazionale verso la Palestina e una volontà globale di salvare i Palestinesi.

Traduzione per InfoPal di Aisha T. Bravi