Palestina, tra scenari e crisi globali. Intervista al presidente di FederPetroli

InfoPal. Di Angela Lano. La drammatica situazione in Palestina, con gli incessanti bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza e gli attacchi in Cisgiordania, gli annunci di una prossima invasione di terra a Gaza, le manovre USA nel Mediterraneo, la potenziale risposta di Russia, Cina e Iran (e altre realtà mediorientali), rendono la regione del Vicino e Medio Oriente una “polveriera” sul punto di esplodere, con gravi ripercussioni per i popoli di quelle aree e dell’Europa intera. Ne abbiamo parlato con il presidente di FederPetroli, Michele Marsiglia, da tanti anni attento osservatore e analista delle dinamiche geopolitiche in atto.

Lo scenario mediorientale attuale può portare, secondo lei, a un conflitto regionale più ampio, a partire dai combattimenti al confine tra Israele e Libano, con le forze di Hezbollah sostenute dall’Iran, e fino a trascinare l’Iran stesso ed altri importanti attori internazionali in una guerra globale? 

Michele Marsiglia. Ritengo che siamo già in questa fase. Il conflitto è ampio, ma non tutte le forze coinvolte hanno espresso la loro intenzione apertamente, quando e se succederà, non penso che la situazione si riuscirà più a gestire. Teheran ha già fatto le proprie dichiarazioni. Il capo di Hamas, Ismail Haniyah, sta discutendo proprio con la Guida Suprema, l’Ayatollah Ali Khamenei, per una strategia di difesa di Gaza e dei Territori palestinesi.

Il segnale da parte di Hezbollah, il Partito di Dio, si è visto chiaro e determinato. Il confine tra Libano e Israele è sempre stato un territorio delicato, specialmente dal 2006 (Guerra del Libano) dopo quella del 1982, anche più di Gaza. Le forze israeliane stanno continuando a colpire anche in Siria, nei pressi di Damasco e Aleppo, scali dove passa carburante per Hezbollah. Se fino a qualche tempo fa parlavamo di guerra tra Israele e Palestina, oggi si parla di Paesi arabi ed Israele. Penso, però, che questa volta Israele non ha fatto bene i calcoli con i propri vicini di casa, non parlo dei Territori palestinesi, ma di tutti gli altri Paesi che compongono il Medio Oriente. Un’escalation imminente e pesante non è esclusa. ‘Una polveriera’ come dichiarato dal ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amir-Abdollahian. Anche l’ultimo Vertice al Cairo di qualche giorno fa su una possibile ‘pace’, non ha prodotto nulla di fatto.

Se l’Iran venisse coinvolto nella guerra, cosa succederebbe? La Russia che decisioni potrebbe prendere? E la Cina?

M.M. Consideri che la Repubblica iraniana, anche se con questioni di embargo, ha sempre rappresentato un enorme potenziale per l’industria petrolifera, detenendo ed esportando grandi quantità di greggio, anche in Italia. Il petrolio dell’Iran è di alta qualità per diversi usi nella raffinazione. L’Iran è un paese che interessa a tanti. Dobbiamo vedere l’Iran non da solo, ma un padre che porta per mano diversi figli, che si chiamano Hezbollah, quindi parte del Libano, Palestina, Russia e anche qualche altro. Non sottovalutiamo che, anche se spesso l’Iran è stato attore e controparte nei conflitti con la Penisola Arabica, in questo preciso momento il mondo musulmano, sunnita e sciita, è quasi unito o meglio unanime. Non abbiamo visto spesso questa fotografia, penso quasi mai. Questo sta a significare che il conflitto di oggi non è più religioso, ma si basa su pretese legittime, il riconoscimento del diritto. Hamas è ritenuta un’organizzazione terroristica da alcuni paesi, ma da altri no. Se l’informazione deve essere corretta, Hamas è stata eletta dal popolo della Striscia di Gaza nel 2007 con elezioni legittime, così come in quella che in inglese chiamano la West Bank o che preferisco definire Cisgiordania, con l’Autorità Palestinese. La Russia si è già schierata chiaramente a favore della Palestina, la Cina è stata chiara. Ricordiamoci che in queste situazioni si vive anche un effetto boomerang occidentale. Quindi oggi la situazione è da considerare come Mondo Arabo e Israele, non più come Gaza e Tel Aviv.

Come vede l’arrivo di portaerei statunitensi nel Mediterraneo orientale? Ritiene che Washington si stia preparando ad entrare pienamente nel conflitto? Gli USA potrebbero avere qualche interesse nell’ampliamento delle aree di guerra?

M.M. Mi soffermo sulle parole che il presidente Joe Biden ha pronunciato a Benyamin Netanyauh, qualche giorno fa: “Avete diritto di difendervi, ma non fate l’errore che abbiamo fatto noi dopo l’11 Settembre”, suggerendo anche a Tel Aviv di non colpire gli Hezbollah. Non sono parole da poco, gli Stati Uniti d’America hanno riconosciuto che il fondamentalismo è una cosa, ma i popoli e le religioni sono ben altro e vanno rispettate.

Gli USA sono pienamente coinvolti e attori principali del conflitto russo-ucraino come in questo israelo-palestinese: è evidenza oggettiva. Gli interessi in gioco sono tanti, specialmente quelli energetici che, però, viaggiano su binari paralleli con gli altri paesi del Medio Oriente e questo porta gli statunitensi a essere più diplomatici. Ricordiamoci, poi, che una grande comunità israeliana di origine ebraica è presente in diverse città degli Stati Uniti con residenza e cittadinanza, quindi votanti. Se poi ci interroghiamo sugli interessi americani in Medio Oriente, la lista è infinita. Basta considerare che la piattaforma Offshore Tamar, in acque mediterranee, nel giacimento Leviathan, al largo delle coste palestinesi ed israeliane, ha come operatore una compagnia petrolifera statunitense.  

Israele vuole ripulire etnicamente ciò che rimane della Palestina storica – Striscia di Gaza e Cisgiordania – e tenersi Gerusalemme Est, in violazione di tutte le risoluzioni ONU. Netanyahu lo ha fatto capire chiaramente durante il suo intervento all’Assemblea generale dell’ONU, a inizio ottobre, mostrando una mappa di Israele dove la Palestina era sparita. Tutto l’Occidente sembra appoggiarlo e accusa, invece, la resistenza palestinese. Perché?

M.M. E’ mio dovere precisare che il sottoscritto crede fermamente nel diritto e rispetto dei popoli, non solo, conosce il Medio Oriente e le zone di cui stiamo parlando, considerandole una seconda casa. Lo faccio per lavoro e per passione. Sono oltre venti anni che studio il Medio Oriente e la forte influenza del dialogo interreligioso, ma la convinzione e sicurezza più grande che ho è quella che la nostra storia nasce in una terra chiamata Palestina. Detto questo ritengo, come più volte ribadito, che il diritto dello Stato di Israele di esistere non è in dubbio, ma è altrettanto legittimo che al mondo esista la Palestina con un suo proprio Stato e che dia ai propri abitanti la legittimità di esistere come popolo e come nazione.

Ritengo, però, alquanto disgregata la Comunità Internazionale e l’ONU nelle proprie forze e prese di posizione. Da un lato sappiamo che l’ONU condanna fermamente i metodi di Israele e le restrizioni applicate alla Striscia di Gaza e ai suoi abitanti, considerando le politiche israeliane una grande violazione del Diritto internazionale ed umanitario, che tolgono alla Striscia i servizi di base, acqua potabile ed elettricità, e impongono un blocco terrestre, aereo e marittimo dal 2007 con la prese di potere di Hamas. Anche il sistema fiscale, le tasse ai palestinesi, in pochi lo sanno, sono riscosse da Israele, compresa l’Iva, che poi dovrebbe ridarla all’Autorità Palestinese di Abu Mazen, spesso viene trattenuta a titolo di ricatto e punizione. 

Poco diplomatica è la posizione europea, come il forte appoggio all’Ucraina, condannando senza se e senza ma la Russia. Stesso copione per la Palestina. La cosa che più disturba, come risposta occidentale, è proprio quella di definire tutto questo “Jihad” o “Guerra Santa” e attribuire tutto ad un fondamentalismo religioso. Questa è solo una tesi occidentale comoda che non lascia, in questo modo, spazio all’interrogarsi sui veri motivi di un conflitto che dal 1948 è ancora più forte, sui diritti di un popolo. E’ più conveniente portare l’attenzione su moschee e luoghi di culto, ma non sull’islam e sull’ebraismo, se proprio vogliamo parlare di religione. Forse si dimentica che qualche giorno fa è stata attaccata la moschea Al-Ansar a Jenin, in Cisgiordania, la chiesa ortodossa di San Porfirio a Gaza, l’Ospedale; forse bisognerebbe parlane. O per essere imparziali dovremmo anche approfondire una tematica sulle tasse non restituite da Israele a danno degli ebrei che muoiono negli scontri. E quando vengono uccisi palestinesi vittime del terrorismo di coloni ebrei? Interroghiamoci anche su questo.

Possiamo dire che una delle principali ragioni dei periodici bombardamenti israeliani su Gaza sono i giacimenti Leviathan? Ce ne vuole parlare?

M.M. Affermarlo è difficile, ma è una delle cause, a nostro parere, e ci sono buone variabili per analizzare il tutto. Con FederPetroli Italia, ogni qualvolta vi è possibilità di investimento in un Paese, non parlo solo di Medio Oriente, necessitiamo di diverse analisi interne che prospettino i rischi, i vantaggi e tutto quanto possa garantire un miglior funzionamento delle operazioni. Tutto questo su binari paralleli con servizi di intelligence diversi che sono nostra fonte di affiancamento, specialmente in Paesi con rischi dichiarati e con location sensibili per le operazioni. Se parliamo di Leviathan la situazione è delicata, perché ci addentriamo in uno dei giacimenti di idrocarburi più grandi ed importanti al mondo. Oltre 700 miliardi di metri cubi di gas di riserve sfruttabili a circa 130 miglia dalle coste della Striscia di Gaza e di Israele. Un giacimento che si estende nell’area del Mediterraneo, dal nord dell’Egitto fino al Libano, proseguendo su Cipro, Grecia e con possibilità di collegamento finale con l’Italia. Proprio con il nostro paese, per chi lo ricorda, c’è il grande Progetto strategico di Gasdotto chiamato EastMed, 3000 e più chilometri di pipeline per trasportare il gas estratto del Mediterraneo orientale e quindi da Leviathan, in Italia come entry-point finale e in Europa nelle fasi successive. Per non parlare dell’idrocarburo che potrebbe approvvigionare la gran parte degli stati del Medio Oriente, ridisegnando una nuova era di Politica Energetica mediorientale che andrebbe a stravolgere le quote di mercato dei Paesi Arabi.

In passato, l’Italia ha sempre avuto una solida posizione pro-mondo arabo, in quanto situata nel contesto del Mediterraneo. Da diversi anni, tuttavia, ha cambiato completamente atteggiamento: lo abbiamo visto con la Libia e ora con la Palestina, per non parlare delle relazioni con la Russia. Tralasciando per un momento la questione umanitaria, dal punto di vista puramente economico ci sta perdendo molto. Come spiega questo cambiamento radicale di prospettiva che diremo quasi “suicida” a livello di rifornimento energetico?

M.M. Un grandissimo errore, lo schierarsi. Teoria che fomenta odio, ma non porta all’oggettività e sobrietà della situazione. La posizione italiana-europea sulla Russia è stato un suicidio economico, tralasciando come ha detto la parte umanitaria, che ha creato non pochi imbarazzi a livello umano con i cittadini russi. E’ stato il primo caso nella storia che un paese che sanziona, ci perde per riflesso di più di quello sanzionato, e le criticità sono ancora ben visibili: stiamo correndo ancora oggi, quasi nel 2024, ad accaparrarci gas per non entrare di una fase di default energetico – sia italiano che europeo. La mia cultura politica deriva da governi di Prima Repubblica, dove le forze della Democrazia Cristiana e del Socialismo, nei leader come Giulio Andreotti o Bettino Craxi, hanno sempre mantenuto una politica filo-araba – ovviamente non escludendo altri Paesi, né popoli con religioni diverse. Se proprio vogliamo entrare nel merito del conflitto di oggi, facendo qualche passo indietro, il ruolo e riconoscimento di Yasser Arafat in l’Italia fu notevole e proprio in quel momento storico dove l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina era allora più attuale di adesso. Ricordo con simpatia che, a Gaza, vi era grande produzione di arance e la satira attribuiva al presidente del Consiglio Giulio Andreotti “la fabbrica di Andreotti”: in questo modo si evidenziava l’appoggio che era stato dato ad Arafat e all’OLP. Inoltre, ricordiamo la vicinanza ed amicizia con Gheddafi e, non ultimo, la questione Sigonella. Non dimentichiamo Mattei e l’Africa, dove anche il presidente del Consiglio in carica, Giorgia Meloni, ha puntato la sua strategia di governo, gli interessi dell’ENI e di tutto il mondo petrolifero che segue, l’infinito mondo dell’Oil & Gas che rappresentiamo, e che, nei Paesi a maggioranza arabi, abbiamo da decenni investito ed installato i nostri impianti. Si tratta di quel mondo arabo che ci fornisce circa l’80% di quella risorsa che si chiama Petrolio e che, ancora oggi, rende possibile i consumi e gli usi dell’intero mondo. Quindi, dal punto di vista, lo ripetiamo, puramente economico, i Paesi arabi dove operiamo sono tanti, tra Africa e Medio Oriente; in Israele poche compagnie petrolifere hanno attività, quindi per pura intelligenza economica e di cooperazione bilaterale, si potrebbe anche essere più diplomatici. Mi spiego tutto questo in un solo modo: l’Italia, da un bel po’ di anni, non riesce più ad essere indipendente sulle decisioni, anche e soprattutto, di Politica Estera, essendo schiavizzata da altre forze e Paesi che ne compromettono l’operato internazionale. Siamo hub del Mediterraneo, ma con posizioni contrastanti e contraddittorie sia in tema arabo che sulle questioni migratorie. Una mancanza di politica estera che penalizza non poco le aziende dell’Oil & Gas, e non solo.

Nell’articolo “How will the Israel-Hamas war affect oil prices and the global economy?”, il Guardian discute l’effetto dell’attuale conflitto israelo-palestinese sui prezzi dell’energia. Sappiamo che il costo del greggio è sensibile agli eventi in Medio Oriente. Sarà un ulteriore disastro per l’Europa?

M.M. Il conflitto esaspera di più il grado di rischio geopolitico. La politica energetica del Medio Oriente, dal 1960, è gestita dall’OPEC, che è l’organizzazione dei Paesi produttori ed esportatori di greggio, con sede a Vienna. Ne sono membri tutti i maggiori stati al mondo, con le più grandi riverse petrolifere; la maggioranza degli Stati, oltre a quelli dell’Africa e del Sud America, sono del Medio Oriente; l’Opec è il mondo arabo del petrolio. Negli ultimi tempi è stato allargato e chiamato OPEC+ con l’aggiunta della Russia. Quindi penso che la fotografia sia chiara anche ai lettori non esperti di politiche petrolifere. Oltre alla sensibilità dei mercati sul piano internazionale, l’Organizzazione viennese decide, spesso all’unanimità, di tagliare la produzione petrolifera dei singoli membri, con quote diverse, o immettere sul mercato internazionale più greggio, e se limitare o aumentare l’offerta. Nelle ultime settimane stiamo assistendo a grandi sbalzi delle quotazioni dei greggi di riferimento sui mercati, parlo di WTI e BRENT, con oscillazioni molto forti che compromettono le politiche interne delle nostre aziende. In una situazione reale e normale di mercato il petrolio, come il gas, ha una forte volatilità, si può ben immaginare in una fase di conflitto, principalmente nelle zone che ‘custodiscono’ nel proprio sottosuolo la risorsa petrolifera. Oggi viaggiamo intorno a 91 dollari a barile, in fase di conflitto arrivare a 160 ci vuole poco, questo si traduce in un aumento del costo del carburante in diversi paesi del mondo e costi energetici fuori controllo. Il TTF di Amsterdam, dopo la chiusura della piattaforma Offshore Tamar, ha guadagnato un rialzo del 30%. Potrebbero mancare più di 2 milioni di barili al giorno iraniani. Siamo già in una grande problematica energetica che Europa non riesce a gestire.

Quali scenari prevede per il prossimo futuro?

M.M. Con FederPetroli Italia continuiamo ad investire, le nostre aziende non possono fermarsi. Ci sono investimenti programmati per il periodo covid che abbiamo dovuto mettere in atto, altrimenti molte aziende sarebbero cadute in un default economico. Le aziende devono pensare al business e, rispettando le questioni umanitarie, l’economia deve perseguire i propri obiettivi con determinazione. Sicuramente le situazioni belliche rallentano e spaventano gli investitori, come è successo in Libia. Oggi siamo in un mercato, almeno quello petrolifero, che ha ridistribuito già da tempo le quote con nuovi player in evoluzione e con Paesi che hanno adeguato e rivisto la propria politica industriale: è il caso di Cina, India ed altri Stati. Lo scenario è difficile ed il mercato è sempre più volatile. Con le compagnie petrolifere, per arrivare ad un equilibrio, attendiamo un prezzo del barile ad almeno 120/130 dollari, in modo da recuperare le perdite nei tardati investimenti degli scorsi anni. E’ notizia di qualche ora che la nostra ENI si è aggiudicata un contratto a lungo termine con il Qatar, paese che si sostiene fortemente legato a Hamas, per la fornitura di gas proveniente dallo sfruttamento del giacimento qatariota North Field East. 

Oggi il Medio Oriente è ancora baricentro del petrolio mondiale con un’alta produzione, parlo anche di gas. Come ho detto qualche settimana fa, tuteliamo il mondo arabo ed i nostri giacimenti. Non è razzismo contro l’uno o l’altro stato: è business.