Sumud: fermezza come resistenza quotidiana

Palquest.org. Di Runa Johannessen. Il concetto di Sumud ha acquisito diversi significati e applicazioni in vari frangenti della lotta palestinese contro la pulizia etnica. (Da InvictaPalestina.org). Sumud, che significa “Fermezza” o “Resilienza” in arabo, è un termine comune usato per descrivere la quotidiana resistenza nonviolenta palestinese contro l’occupazione israeliana. Il termine stesso è entrato nel contesto politico come simbolo nazionale durante gli anni ’60, ma la coscienza collettiva palestinese di lotta per restare sulla terra palestinese fa parte di un più lungo sviluppo storico di resistenza all’oppressione e all’espropriazione. Questa storia risale alla rivolta del 1936-1939 contro il Mandato Britannico (1917-1948) e alla guerra in Palestina del 1947-1949, chiamata dai palestinesi (e dagli arabi in generale) Nakba, o Catastrofe.

Il concetto di Sumud ha acquisito diversi significati e applicazioni in vari frangenti della lotta palestinese contro la pulizia etnica. Piuttosto che avere una definizione fissa, Sumud è un continuum di obiettivi e pratiche di resistenza che hanno risposto ai cambiamenti nella retorica di oppressione e resistenza. Copre una vasta gamma di pratiche e valori culturali, ideologici e politici. Le potenziali aree di Sumud si manifestano in attività concrete come la costruzione e la ricostruzione di case nonostante il rischio di demolizione; il pendolarismo per lavoro o per piacere nonostante l’intensificarsi dei posti di blocco; investire nell’istruzione; creare e rafforzare le istituzioni non governative; investire in progetti economici in Palestina per rafforzare l’autosufficienza; garantire la responsabilità sociale delle imprese; organizzare o partecipare ad attività culturali palestinesi; e l’organizzazione di campagne di attivismo. In alcuni casi, il Sumud è esplicitamente articolato, come si è visto con la creazione della Sumud Story House (Pinacoteca) a Betlemme; in altri è implicito nella determinazione a vivere il più normalmente possibile.

Il Sumud quindi abbraccia pratiche segrete, non riconosciute e basate sulla consuetudine nel quotidiano, fino allo sfociare completamente nella sfida in eventi come le dimostrazioni. Sebbene il Sumud non sia limitato alle pratiche quotidiane, condivide caratteristiche con la resistenza e la resilienza quotidiane in altri contesti, ad esempio con il concetto sudafricano di Ubuntu (“Umanità”).

Sumud “attivo” e “passivo”.

Il Sumud è stato adottato come simbolo nazionale negli anni ’60 e ulteriormente promosso come emblema politico dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) negli anni ’70 e ’80. La denominazione Samidun (“coloro che sono risoluti”) è stata inizialmente utilizzata per identificare i palestinesi che vivevano nei campi profughi in Giordania e Libano e quelli che vivevano in Israele. Durante gli anni ’70 il termine Samidun venne associato in particolare ai palestinesi che vivevano in Cisgiordania, Gerusalemme Est e Gaza.

Nelle prime apparizioni del Sumud come simbolo nazionale di resistenza, si poneva l’accento sull’impegno per la causa nazionale rimanendo in terra palestinese o nei campi profughi nonostante le difficoltà. Questo impegno includeva la resistenza all’espulsione forzata e l’incoraggiamento della prolificazione come strategia nella lotta demografica. Tuttavia, il simbolismo nazionalista promosso dall’OLP è stato criticato da molti palestinesi per essere una non resistenza passiva incentrata solo sulla sopravvivenza, sull’iper-glorificazione della società rurale e sulla fecondità delle donne.

Allo stesso tempo, l’iniziativa del Comitato Congiunto Giordano-Palestinese di sostenere finanziariamente la Resilienza palestinese attraverso sussidi forniti dal Fondo di Aiuto del Sumud, istituito nel 1978, ha fatto sì che il Sumud fosse associato alla retorica politica e alla corruzione. Questa forma di Sumud era vista come una mera tattica di sopravvivenza ed è stata etichettata come “Sumud statico” dall’attivista palestinese Ibrahim Dakkak, co-fondatore del Movimento di Iniziativa Nazionale Palestinese. Secondo Dakkak, il Sumud statico è stato promosso prevalentemente dalla diaspora e da interessi acquisiti al di fuori dei Territori Palestinesi Occupati, mentre i palestinesi all’interno dei Territori erano più inclini ad un “approccio meno ortodosso e più aggressivo” alla resistenza.

Emerse una distinzione tra resistenza “attiva” e “passiva” e creò un fronte tra resistenza come strategia offensiva e Sumud come strategia protettiva e difensiva. Sumud muqawim (resistenza Sumud) si è sviluppato all’interno di questa contrapposizione quando i movimenti popolari si sono riappropriati del Sumud come concetto attivista nei primi anni ’80. In questa riconcettualizzazione, il Sumud è stato ampliato per comprendere lo sviluppo strategico e varie forme di resistenza nonviolenta e disobbedienza civile, andando oltre il simbolismo per diventare un’ideologia e una pratica più articolate che si concentra sulle strategie di autosufficienza.

Questi sforzi collettivi nell’ambito del Sumud muqawim furono decisivi per porre le basi della Prima Intifada, la rivolta popolare palestinese del 1987-1993. Secondo i sociologi Samih K. Farsoun e Jean M. Landis, la mobilitazione della resistenza attraverso la costruzione di istituzioni alternative negli anni ’80 faceva parte di un processo di “trasformazione di una guerra di posizione in una guerra di manovra”: di passare ad un accumulo strategico di forze per aprire il conflitto. L’attuazione strategica del Sumud muqawim prima e durante la Prima Intifada costituì una capacità di destabilizzare la struttura e le condizioni dell’occupazione. La rivolta si concluse con la firma degli Accordi di Oslo a metà degli anni ’90, che promettevano una ristrutturazione del potere che avrebbe portato all’autodeterminazione. Tuttavia, il risultato di questa ristrutturazione non fu uno Stato palestinese sovrano, ma piuttosto una nuova fase di occupazione che ha trasferito l’amministrazione quotidiana della vita della popolazione colonizzata a una nuova Autorità, pur mantenendone il controllo complessivo e definitivo.

Come termine politico che abbraccia gli anni ’60-’90 nell’ambito della resistenza, il Sumud è apparso come un concetto polivalente al quale sono stati attribuiti significati divergenti e mutevoli. Era soggetto a disaccordi sul fatto che rappresentasse una forma efficace di resistenza o semplicemente statica e caratterizzata dalla rassegnazione.

Sumud come stato mentale.

Parallelamente a questi dibattiti, un altro significato di Sumud è stato articolato dall’avvocato palestinese Raja Shehadeh, che ha introdotto il termine a un pubblico internazionale in La Terza Via: Diario di Vita in Cisgiordania (The Third Way: A Journal of Life on the West Bank – 1982). Shehadeh ha descritto il Sumud come uno stato mentale, una “terza via” tra resistenza violenta e accettazione passiva. Secondo Shehadeh, il Sumud è stato praticato da chiunque vivesse e facesse fronte all’occupazione molto prima che entrasse nel contesto politico. La “terza via” è quella di rifiutare la scelta tra “l’esilio o la capitolazione sottomessa” e “l’odio cieco e divorante”, ha scritto Shehadeh, per il quale essere Samid è una prova della vita quotidiana.

La “terza via” non va quindi intesa come una posizione alternativa tra Sumud “attivo” e “passivo”, ma piuttosto come una forma di resistenza che differisce sia dalla resistenza violenta rappresentata dai fedayn (combattenti per la libertà palestinesi) sia dalla sottomissione al potere israeliano. Il libro di Shehadeh, pubblicato in inglese, è stato un importante contributo che ha apportato un certo grado di sfumatura a rappresentazioni mediatiche altrimenti relativamente unilaterali che equiparavano la resistenza palestinese al terrorismo per un pubblico internazionale.

In Oltre l’Ultimo Cielo: Vite Palestinesi (After the Last Sky: Palestine Lives – 1986), Edward Said sottolinea allo stesso modo l’importanza di sostenere la vita quotidiana, in particolare il modo in cui il lavoro “diventa una forma di resilienza elementare, un modo per trasformare la presenza in resistenza su piccola scala”. Sostenersi attraverso il lavoro, ha scritto Said, per quanto limitato possa sembrare, è quindi una forte espressione di Sumud come “una soluzione semplice a una situazione difficile per la quale al momento non è disponibile una strategia chiara”. In questa prospettiva, il mantenimento e l’investimento nelle attività quotidiane è una forma tattica di resistenza in assenza di una strategia politica.

Una strategia all’interno di una non strategia.

Mancano ancora soluzioni politiche strategiche alla situazione palestinese. Questo deve essere compreso alla luce della ristrutturazione del potere politico nell’era post-Oslo, dove la resistenza è ostacolata non solo direttamente da Israele, ma anche dall’Autorità Palestinese che agisce come una quasi-autorità per procura di Israele. In una critica alla mancanza di strategie ponderate da parte della dirigenza palestinese per combattere l’egemonia israeliana, l’antropologo e attivista israeliano Jeff Halper ha definito il Sumud una “strategia all’interno di una non-strategia”. Questa “non-strategia”, che comprende Sumud, negoziazione e logoramento, non è formulata consapevolmente, secondo Halper, ma è una reazione collettiva all’occupazione che ha, finora, impedito la sconfitta.

Una critica simile è espressa dall’antropologa sociale Ruba Salih e dalla sociologa Sophie Richter-Devroe, che hanno sostenuto che l’Autorità Palestinese non solo manca di una strategia, ma che ha mantenuto una posizione contraddittoria rispetto alla resistenza: sostiene la “cultura della resistenza” anche se normalizza il potere occupante a cui si resiste. Sono state promosse espressioni culturali e simboliche del Sumud, mentre sono state represse forme politiche dirette di opposizione all’occupazione come le manifestazioni e la disobbedienza civile.

Significato contemporaneo di Sumud.

La concezione di Shehadeh e Said del Sumud come strettamente connesso con i compiti dell’individuo nella vita quotidiana è coerente con il suo significato contemporaneo. Secondo la sociologa Alexandra Rijke e l’antropologa Toine van Teeffelen, molti palestinesi oggi non vedono alcuna contraddizione tra la resistenza come confronto diretto con l’apparato di occupazione e la resistenza come forma di sopravvivenza. In questa visione, la polarità di “attivo” e “passivo”, come precedentemente vista nell’opposizione tra Sumud statico e Sumud muqawim, diventa irrilevante come determinante per designare una forma “appropriata” di resistenza. Sumud appare piuttosto come un continuum di una vasta gamma di obiettivi e pratiche che si intrecciano l’uno con l’altro nella vita di tutti i giorni.

Le pratiche odierne di Sumud vanno da quelle che sono percepite come normali attività quotidiane come andare a scuola, costruire una casa, mantenere viva la cultura e la memoria e coltivare la terra ad attività che hanno espressioni politiche più distinte, come andare a manifestazioni, scrivere graffiti sul muro di separazione o non ottemperare alle autorità. Indipendentemente dal fatto che queste pratiche siano percepite come in diretto confronto con l’apparato dell’occupazione o meno, sono aspetti diversi dello stesso concetto: interconnessi dall’insistenza sull’essere risoluti nonostante le restrizioni e gli ostacoli. Costruire una casa, ad esempio, è un atto per creare Sumud materiale e quindi radicarsi attraverso un edificio e, così facendo, contribuire alla causa collettiva di rimanere sulla terra palestinese attraverso un atto individuale. Costruire quando c’è motivo di credere che Israele potrebbe benissimo demolire (con il pretesto che manca il permesso amministrativo richiesto) diventa un atto di sfida e resistenza. Essere risoluti, nel senso letterale del semplice restare, richiede un impegno attivo e persistente nel mantenere una presenza nei Territori Occupati. In questo senso, il Sumud appare come una modalità abitativa sensibile alla pressione delle forze che ha come obiettivo lo sfollamento dei palestinesi.

Oggi il Sumud è ampiamente inteso come un concetto che comprende le molte azioni diverse che le persone intraprendono contro la politica della cancellazione. È espresso nel ricorrente detto comune al-hayat lazim tistamirr: la vita deve continuare, ed è stato anche descritto come uno stile di vita, come un insieme di atti quotidiani contro la subordinazione, o come un modo palestinese di essere anticoloniali. Insieme, queste espressioni intrecciano il soggetto che resiste nell’oggetto della resistenza in modo tale da apparire come uno: Il Sumud è una forma di vita, e il corpo stesso è un generatore di resistenza da cui scaturisce la resistenza.

Il Sumud è un concetto che ha abbracciato i cambiamenti nel modo in cui viene definita la resistenza nonviolenta contro l’occupazione. È enunciato come un simbolo o un’ideologia politica, un indicatore e un appello per un’azione concreta, una coscienza collettiva, uno stato d’animo o uno stile di vita. Il continuum del Sumud elide ogni significato specifico singolare, ma è caratterizzato da un’enfasi sul soggetto come luogo di resistenza e sul Sumud come stile di vita.

Rune Johannessen è una ricercatrice accademica dell’Università norvegese di Scienza e Tecnologia.

Traduzione di Beniamino Rocchetto per Invictapalestina.org