Perché la Palestina ha diritto di resistere. Un po’ di storia

InfoPal. Di Lorenzo Poli. Nel dibattito che si sta sviluppando in questi giorni sulla questione palestinese, sta emergendo tutta l’ipocrisia dell’opinionismo da talk show italiano più interessato a portare l’acqua al suo mulino piuttosto che informare, chiarificare e fare i giusti distinguo concettuali. Con l’Operazione “Spade di ferro”, l’escalation militare israeliana su Gaza in risposta ai missili lanciati dal movimento di resistenza palestinese Hamas, e di altre fazioni – che a loro volta hanno lanciato dopo i soprusi, le violenze e i crimini che Israele ha commesso tra il 5 e il 6 ottobre in Cisgiordania – dal mainstream viene esaltato il “diritto di Israele a difendersi” dal “terrorismo islamico” affermando che c’è “un aggredito, Israele, e un aggressore, Hamas”.

A questi ignoranti dobbiamo dire che la Palestina è da un secolo, ancora prima del colonialismo israeliano, che cerca la propria indipendenza ed autodeterminazione come popolo.  

Dopo che il padre del sionismo, il giornalista viennese Theodore Hertzl, ebreo di origine ungherese di lingua tedesca e di origine ashkenazita, pubblicò “Der Judenstaat”, ovvero “Lo stato ebraico”, nel 1897 si tenne il primo Congresso Sionista a Basilea, con lo scopo di trovare una “terra di nessuno” che ospitasse gli ebrei di tutto il mondo. Secondo Hertzl vi era l’impossibilità per gli ebrei di venire assimilati dalle varie culture che li ospitavano nel mondo e quindi era necessaria la creazione di uno stato apposito. Dopo aver preso in esame l’Uganda e poi il Madagascar – come se queste fossero terre disabitate – si accorsero che la Bibbia annunciava un futuro ritorno degli israeliti alla “Eretz Israel”, ovvero alla “Terra Promessa”. Il Congresso Sionista, con il cosiddetto “Programma di Basilea”, concluse i lavori affermano che l’obiettivo era “la creazione di uno stato per gli ebrei, in Palestina, garantito dalla pubblica legge”.

Dalle regioni nord-orientali dell’Europa, iniziarono a partire immigrati ebrei e nel 1903 erano già 25.000 quelli che si erano trasferiti in Palestina, in quello che era allora territorio dell’Impero Ottomano. Una seconda ondata ne portò altri 40.000 circa, finché, nel 1914, scoppiò la I Guerra Mondiale.

Nel 1916, per avere l’appoggio militare degli arabi contro gli Ottomani, il commissario inglese in Egitto, Sir Henry McMahon, aveva promesso loro l’indipendenza, ma furono tratti in inganno: una volta finita la guerra, grazie agli accordi segreti Sykes-Picot, nel frattempo stipulati tra loro, Francia ed Inghilterra si erano divise il futuro controllo dell’intera regione. A dare il colpo di grazia fu la lettera che, nel 1917, il politico conservatore inglese Arthur James Balfour indirizzò a Lord Rothschild, leader della comunità ebraica a Londra, con il fine di coinvolgere l’Inghilterra in un appoggio formale al movimento sionista. Passò alla storia come “Dichiarazione Balfour”. Sebbene questa dichiarazione non contenga alcun riferimento ad uno “Stato ebraico”, dall’altro pone come condizione inderogabile il rispetto dei diritti civili e religiosi degli abitanti del luogo.

Con la definitiva sconfitta dell’Impero Ottomano per mano delle Forze Alleate, che nella zona mediorientale erano state organizzate e sostenute dall’Inghilterra, nel 1918 la Palestina si ritrovò sotto il colonialismo britannico e nel 1920 la nascente Lega delle Nazioni assegnò ufficialmente all’Inghilterra il mandato per la conduzione dei “Territori della Palestina”. Fra il 1920 e il 1930, durante il mandato britannico, decine di migliaia di ebrei emigrarono in Palestina. Nel 1922, le autorità censirono l’11% di popolazione ebraica su un totale di 750.000 abitanti, e ai primi fermenti di guerra, nel 1937, vi erano circa 300.000 ebrei che si erano già insediati in Palestina. Si trattava di ebrei aderenti al progetto politico del sionismo, ovvero la colonizzazione forzata del territorio palestinese con il fine di spodestare gli arabi dalle loro terre e fondare lo “Stato ebraico”.

Nell’agosto 1929 iniziarono i primi episodi di violenza tra arabi che videro centinaia di morti per parte, di cui quelli palestinesi quasi tutti per mano della polizia britannica.

Nel frattempo, il 30 gennaio 1933, in Germania, Adolf Hitler salì al potere e ben presto impose lo scioglimento di tutte le organizzazioni giovanili e di tutte le organizzazioni ebraiche, con l’eccezione di due organizzazioni: B’Nai B’Rith e Betar, organizzazioni sioniste di estrema destra che poterono continuare le loro attività nella Germania nazista fino al 1939. Nonostante la decisione presa il 19 dicembre 1934 di vietare ai membri dei movimenti giovanili ebraici di indossare le loro uniformi tradizionali, il 13 aprile 1935 la polizia bavarese, vera roccaforte di Himmler e Heydrich, consentì eccezionalmente di indossare uniformi ai membri di uno di questi movimenti: “Non c’è motivo di ostacolare l’attività sionista in Germania con misure amministrative, perché il sionismo non è in contraddizione con il programma del nazionalsocialismo” – scrissero i leader sionisti di Betar al ministero dell’Interno.

Betar e B’Nai B’Rith furono alcune delle poche organizzazioni a non essere sciolte dalle autorità naziste dopo la presa del potere di Adolf Hitler. E ciò che è ancora più sorprendente è che poterono mantenere le loro uniformi, i loro gradi, fare campi di addestramento, tenere manifestazioni e organizzare sfilate per le strade. D’altra parte, le organizzazioni sioniste di sinistra furono sciolte, e Betar colse l’occasione per mettere le mani sui locali di queste associazioni ebraiche bandite. Furono quindi le uniche due organizzazioni ebraiche sioniste ufficialmente autorizzate a indossare le loro uniformi (camicia marrone, pantaloni, spalline e linguette del colletto, berretto, cintura, ecc.) con il fine di aumentare la motivazione tra i giovani sionisti ebrei che si sarebbero uniti a loro. I militanti di Betar erano incoraggiati a diffondere il loro messaggio alla comunità ebraica, a raccogliere fondi, a proiettare film sulla Palestina, facendo una notevole pressione per insegnare agli ebrei di Germania a smettere di identificarsi come tedeschi e risvegliarsi alla loro nuova “identità nazionale ebraica”.

Perché tutto questo? Perché il 25 agosto 1933 si concluse l’Accordo di Haavara tra Germania nazista e la Jewish Agency for Israel (organizzazione di ebrei tedeschi sionisti chiamata anche Sochnut o JAFI) per consentire agli ebrei di emigrare in Palestina. JAFI, nata nel 1923, dal 1929 fu incaricata di facilitare l’immigrazione ebraica in Palestina, l’acquisto e l’esproprio di terre dai proprietari arabi e di pianificare le politiche generali della leadership sionista. JAFI costruì scuole e ospedali, oltre a formare l’Haganah, un’organizzazione terroristica sionista che operò dal 1920 al 1948 per fare “pulizia etnica” contro i palestinesi, rubare le loro terre e fondare Israele.

Nel 1936 si assistette ad uno sciopero generale dei palestinesi, che protestavano per le continue azioni terroristiche da parte di movimenti terroristi sionisti, come l’Irgun Zvai Leumi e l’Haganah, che agivano con il dichiarato scopo di “liberare la Palestina e la Transgiordania” dalla presenza araba, dimenticando che quelle erano terre arabe.

Iniziarono, nel 1937, dieci anni cruciali, in cui vennero in luce e si cristallizzarono tutti gli elementi che saranno poi alla base dei maggiori problemi odierni.

Nel luglio 1937, una commissione britannica, capeggiata dal Segretario di Stato delle Indie, Lord Peel, raccomandò la spartizione delle terre in due stati: uno israeliano (un terzo delle terre circa, comprensivo della Galilea e della pianura costiera) ed uno arabo. I palestinesi respinsero questa idea, e chiesero invece un arresto dell’immigrazione forzata volta a colonizzare la zona, con l’implementazione di adeguate misure di protezione per le minoranze all’interno di un unico stato comune. Il rifiuto inglese portò ad un ritorno della violenza, finché le proteste palestinesi furono schiacciate con la forza dall’esercito britannico.

Con l’avvicinarsi della II Guerra Mondiale, ancora prima delle leggi razziali, aumentò sensibilmente il ritmo di immigrazione degli ebrei, che provenivano soprattutto dall’Europa Centrale, e che iniziò a mettere a rischio l’intero equilibrio del ciclo produzione/sostentamento nella regione.

Nel maggio 1939, il governo britannico pubblicò il Documento Parlamentare 6019, noto come White Paper, con il quale intendeva porre un limite all’affluenza ormai indiscriminata verso la Palestina. Nonostante questo, intere navi cariche di immigranti viaggiavano di notte cercando di superare il blocco navale inglese, per poi accostare alla prima spiaggia libera e scaricare letteralmente fuori bordo centinaia di persone alla volta. Durante la guerra, i gruppi terroristi sionisti si unificarono sotto la guida dell’Irgun, con l’intento di rivolgere contro gli stessi inglesi la loro lotta di “liberazione del territorio”. Alla loro guida, nel frattempo, era stato eletto un uomo che trent’anni dopo, nelle vesti di Primo Ministro di Israele, avrebbe firmato uno storico trattato di pace con l’Egitto di Anwar el Sadat: Menachem Begin.

Fu sotto Begin che, nel gennaio 1944, i sionisti dichiararono ufficialmente una rivolta contro il governatorato inglese. Questo portò ad una prima, storica spaccatura all’interno della leadership ebraica, che vide, da una parte, i membri del Yishuv, l’Agenzia Ebraica che rappresentava ufficialmente gli interessi di quel popolo nel mondo, che sosteneva una via legalistica all’acquisizione del territorio, e dall’altra, appunto, l’Irgun, che usando invece tattiche molto simili a quelle dei terroristi odierni, diede inizio ad una serie di attentati contro i centri nevralgici dell’amministrazione britannica.

L’attentato più noto fu quello del King David Hotel di Gerusalemme, che fu portato a termine da sei membri dell’Irgun travestiti da arabi. Nell’attentato morirono quasi 100 persone, e le lunghe diatribe riguardo al fatto che gli attentatori avessero avvisato o meno la direzione dell’Hotel, mezz’ora prima dell’esplosione, rimasero per sempre insolute.

Alla fine della guerra la situazione era ormai giunta al limite, con arabi contro ebrei, inglesi contro arabi, ebrei contro inglesi, ma anche ebrei contro ebrei, con gli stessi leader Yashuv che temettero per un momento una vera e propria guerra civile. L’Inghilterra si vide, così, costretta a rimettere la delicata questione nelle mani delle Nazioni Unite, che erano da poco nate dalle ceneri della stessa Lega delle Nazioni che le aveva assegnato il mandato venticinque anni prima.

Nel frattempo gli scontri fra palestinesi ed ebrei si facevano sempre più gravi, con il confluire in Palestina di nuove ondate di sopravvissuti alla Shoah, oltre a quelli che avevano risposto all’appello del sionismo da ogni altra parte del mondo.

Un Comitato Speciale delle Nazioni Unite tornò a proporre una spartizione della terra, che prevedeva la creazione contemporanea dello Stato di Israele.

Il 29 novembre 1947 il piano fu sottoposto al voto dell’Assemblea Generale, che emise la storica Risoluzione 181, con 33 paesi a favore, 13 contrari, e 10 astenuti che prevedeva Gerusalemme sotto il controllo internazionale e concedeva agli arabi (che possedevano il 92% della terra ed erano il 70% della popolazione) solo il 47% del territorio del nuovo stato, lasciando agli ebrei tutto il resto.  Gli arabi di Palestina rifiutarono la risoluzione, della quale approfittarono, invece, i sionisti che, rinforzati per il riconoscimento del diritto a uno Stato, lanciarono una campagna di terrore contro i villaggi arabi in Palestina. I britannici, che mantenevano la loro posizione contraria alla creazione dello Stato d’Israele, incoraggiarono e armarono la resistenza araba. Va notato che i palestinesi non facevano direttamente parte delle Nazioni Unite, e dovevano quindi farsi rappresentare dai delegati dei confinanti Paesi arabi.

L’Inghilterra annunciò l’intenzione di restituire il mandato il 15 maggio 1948, tuttavia, i fermenti provocati dalla decisione ONU esplosero molto prima di quella data, precipitando la regione in uno stato di caos, e mettendo gli inglesi in serie difficoltà: da una parte, nel tentativo di domare la rivolta, il numero dei morti fra i loro soldati continuava a salire, dall’altra si facevano sempre più forti le pressioni, da parte degli Stati Uniti, per permettere l’immigrazione ad un numero ancora maggiore di ebrei. Ora, in chiaro contrasto con l’Inghilterra, sembrava essere passato decisamente agli USA il ruolo di sostenitori della causa sionista.

Le prime operazioni sistematiche di “pulizia etnica” – così definite da loro stessi – furono intraprese dai sionisti contro i palestinesi nel dicembre 1947. Il 9 aprile 1948 le milizie terroristiche di Irgun e Lehi massacrarono l’intera popolazione palestinese del villaggio di Deir Yassin. Mentre il massacro continuava da parte sionista, la notizia si spargeva in fretta dappertutto, ed i palestinesi iniziarono a fuggire in massa verso il Libano a Nord, la Cisgiordania ad Est, e l’Egitto a Sud: il trasferimento di massa che provocò 700mila sfollati palestinesi, che furono costretti a lasciare le loro case nel periodo che va al 1947 al 1948 e non poterono più ritornare. Il 14 maggio 1948 – sull’etnocidio del popolo palestinese che loro ricordano come al-Nakba, ovvero “La Catastrofe” – veniva proclamato a Tel Aviv il nuovo Stato di Israele, mentre gli ultimi reparti di soldati inglesi lasciavano in fretta e furia il territorio. Lo Stato d’Israele, ottenne l’appoggio di tutte le principali potenze mondiali, anche della Gran Bretagna, che nel frattempo aveva giudicato più conveniente appoggiare gli USA. Lo fece anche con l’appoggio dell’Unione Sovietica, che votò a favore della Risoluzione 181. La logica che guidò Stalin era ben lontana da quella dell’appoggio alle lotte antimperialiste. La politica dell’Urss era guidata dalla difesa della casta burocratica al potere: l’appoggio a Israele fu fornito in chiave anti-britannica, con tanti saluti alla causa palestinese.

Le forze israeliane, assistite dai movimenti terroristi sionisti di Irgun e Lehi, si impadronirono immediatamente del territorio a loro assegnato, appropriandosi anche di sostanziose porzioni destinate ai Palestinesi. In poche ore gli israeliani controllavano l’intera Galilea, il Negev, Gerusalemme Ovest, e buona parte delle pianure costiere.
Il giorno seguente, gli eserciti di Giordania, Siria, Egitto, Libano e Iraq attaccarono Israele, ma furono sconfitti con relativa facilità dalla superiorità militare israeliana. Si venne così ad un armistizio, i cui confini ricalcavano da vicino quelli del precedente Mandato Britannico. La differenza più vistosa era costituita dalla striscia costiera di Gaza, che andava agli egiziani, e la Cisgiordania (West Bank) con Gerusalemme Est, che passava sotto il diretto controllo della Giordania.

In altre parole, da un punto di vista geografico, Israele aveva sostituito in pieno gli inglesi nel controllo dell’intero territorio palestinese, fatto salvo per quelle zone – Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est – che avrebbe poi invaso in seguito. Il sionismo aveva sostituito il colonialismo inglese.

Di fronte ad una situazione così paradossale, fatta di violenze coloniali e terroriste che avevano affossato qualsiasi tentativo di giustizia verso il popolo palestinese, nel 1959 Yasser Arafat, palestinese nato in Egitto, fondava in Kuwait un’organizzazione segreta di stampo laico, socialista e nazionalista di sinistra chiamata Al Fatah, a nome della quale, nel 1964, dichiarava la lotta armata contro Israele.

Nello stesso anno, i Paesi arabi, nel tentativo di tenere sotto controllo il popolo palestinese, creavano l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Ma i palestinesi ambivano a quel punto ad agire indipendentemente.

Nel 1968, quando Al Fatah ed Arafat inflissero gravi perdite all’esercito israeliano nella località di Karameh, in Giordania, i palestinesi ritrovarono il lui il loro leader e, nel 1969, veniva acclamato presidente dell’OLP.

Questa è la storia che legittima il diritto di resistenza del popolo palestinese all’occupazione coloniale d’Israele, al sionismo, al regime d’apartheid razzista che tuttora vive.

Ad oggi le organizzazioni della resistenza palestinese sono Al-Fatah, Hamas fondata nel 1987, Jihad islamico (un altro movimento resistente di stampo islamico presente a Gaza e che non c’entra nulla con l’ISIS), il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp) di stampo marxista fondato nel 1967 e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), di cui il Fplp e Fatah fanno parte.

Oggi molti commentatori dimenticano un fatto importante: da oltre 40 anni le Nazioni Unite hanno ufficialmente riconosciuto il diritto dei popoli sotto occupazione straniera a lottare per la liberazione della propria terra con qualunque mezzo, sia esso la lotta nonviolenta sia esso la lotta armata.

Ad affermarlo è la Risoluzione 37/43 dell’Assemblea generale dell’ONU adottata nella 90ª Plenaria del 3 dicembre 1982, che:

“2. riafferma la legittimità della lotta dei popoli per l’indipendenza, l’integrità territoriale, l’unità nazionale e la liberazione dal dominio e dall’occupazione coloniale e straniera con tutti i mezzi disponibili, compresa la lotta armata.

3. Riafferma il diritto inalienabile del popolo della Namibia, del popolo della Palestina e di tutti i popoli sotto dominio straniero o coloniale all’autodeterminazione, all’indipendenza nazionale, all’integrità territoriale, all’unità nazionale e alla sovranità senza alcuna interferenza esterna.

Inoltre, al punto 21, l’Assemblea generale “condanna fortemente le attività espansionistiche di Israele in Medio Oriente e i ripetuti bombardamenti dei civili palestinesi, cosa che costituisce un serio ostacolo alla realizzazione dell’autodeterminazione e dell’indipendenza del popolo palestinese“.

Nessuna seria discussione può essere fatta oggi sulla questione palestinese se non si riparte da questi presupposti.

Fonti: Nakba 

75 anni dalla Nakba: una Storia di colonialismo senza fine

Storia Palestina 

Libri e Letteratura

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