Conflitti e propaganda, il dissenso come presenza drammaturgica

Conflitti e propaganda, il dissenso come presenza drammaturgica

InfoPal. Di Lorenzo Poli. La delegittimazione del dissenso.

Durante la guerra in Ucraina, come ha affermato il massmediologo Carlo Freccero – al Convegno Pace Proibita organizzato da Santoro nel 2022 -, abbiamo assistito ad una “monografia di guerra”, ovvero i TG e i programmi si sono arruolati in battaglia senza essere sul campo. La propaganda bellica, quel sistema di menzogne senza il quale nessuna guerra sarebbe possibile, ha dilagato su tutte le tv commerciali, private o pubbliche che siano. Spesso erano i giornalisti mainstream stessi a definire la guerra in Ucraina come una “guerra di propaganda”, peccato che non si riferissero mai a quello che quotidianamente portavano avanti nei loro studi, bensì alla propaganda russa e a volte a quella ucraina. Mai si è fatta luce sulla propaganda bellica occidentale e sul “pensiero unico” che veniva continuamente veicolato. Anzi, se si sollevava il problema, molti giornalisti toccati sul vivo protestavano dicendo: “Non è vero che si veicola il pensiero unico, in tutti i programmi c’è sempre quello contrario alla guerra”. Forse è proprio questo il problema. Durante la guerra in Ucraina, nel coro unanime dei talk show sulla “cattiveria di Putin”, i rappresentanti del dissenso come il professor Alessandro Orsini, come Alessandro Di Battista, Vauro e altri pochi, venivano invitati non per essere ascoltati, ma per essere esibiti al circo mediatico che si stava inscenando. In ogni puntata venivano o silenziati o messi al centro dell’attenzione in base all’interesse che si aveva, si aspettava un loro passo falso con il fine o di silurarli con domande faziose o di ridicolizzarli, mostrandoli puerili.

È un copione che è stato usato con tutti indiscriminatamente. Un copione che è stato in grado di declassare in pochissimo tempo intellettuali ed esponenti di alto livello della nostra cultura: ricordiamo, ad esempio, il “bullismo mediatico” che venne inscenato contro il filosofo Giorgio Agamben per la sua forte critica alle politiche pandemiche, alle strategie vaccinali, ai dispositivi securitari ed autoritari messi in atto durante la Covid-19 – dall’essere ritenuto uno dei più grandi filosofi esistenti, si è passati a considerarlo un vecchio bisognoso di riposo. Stessa cosa è successo con il professor Orsini sulla guerra in Ucraina: da rispettato direttore del Centro per lo Studio del Terrorismo dell’Università di Roma Tor Vergata, Research Affiliate al MIT di Boston e docente di Sociologia del Terrorismo alla LUISS, è stato messo alla gogna mediatica per le sue posizioni contro la guerra. Lui metteva solo in atto ciò che erano le sue competenze di sociologo per analizzare un conflitto, ma la schiera di opinionisti da talk show pagati per “produrre e vendere banali opinioni”, qualunque esse siano, aveva la meglio rispetto alla sua posizione. Sono stati in grado di rovinargli la carriera non prendendolo sul serio e ridicolizzandolo, additandolo come “filo-putiano” o “filo-russo”. Lui aveva gli strumenti culturali e intellettuali per spiegare le radici storiche e sociologiche della Guerra in Ucraina e sostenere le sue tesi, ma loro, gli opinionisti banali, non erano in grado di affrontare il dibattito con gli stessi punti di riferimento culturali. Se lui raccontava le radici del conflitto, loro avevano l’arma del “sentito dire” delle veline del giornalismo embedded. La tecnica che si usa contro il dissenso è la delegittimazione agli occhi dell’opinione pubblica.

Il dissenso e propaganda nella società dello spettacolo.

Non è un caso che nei talk show il confronto sia ammesso a patto che la figura del dissenso emerga solo come perdente. La propaganda non è una forma di informazione alterata o pompata, ma è l’assenza totale di informazione dove ad essa vengono preferiti discorsi retorici che non svelino troppo su ciò che accade.

La presenza della “figura del dissenso” in un talk show mainstream, se da un lato viene mostrata come mal tollerata, in realtà è essenziale per poter alimentare la macchina propagandistica. Una volta che si ha la figura del dissenso, la propaganda mette in atto la ridicolizzazione, la tecnica della polarizzazione per tenere a bada l’opinione pubblica, la capacità degli autori tv di mostrare dei idealtipi di “dissenso” con cui identificarsi, la capacità di creare epiteti per categorizzare in modo precostituito e moralistico le opinioni (filo-putiniano, filo-russo). Incasellare le opinioni sotto epiteti ad uso e consumo mediatico equivale a creare paura di esprimersi nei cittadini per evitare di rientrare in quella categoria e, qualora si cadesse nel tranello, si è subito chiamati a giustificarsi, a ritrattare, a dare spiegazioni e a fare le dovute specifiche.

Oggi, con l’Operazione “Spade di ferro” dell’esercito israeliano su Gaza, avviene lo stesso con chi rappresenta parte del dissenso. Nei talk show l’opinione pubblica viene preparata al fatto che chi penserà in un modo sarà evidentemente “pro-Israele” e chi  penserà in un altro verrà tacciato di essere “filo-Hamas”. D’altronde, in Italia, il calcio non è entrato solo nel cuore degli italiani, ma ha plasmato una forma mentis, ovvero il “tifo” e, come ha detto Massimo Cacciari, “chi si riduce a parlare di pro-Israele e filo-Hamas è un provinciale”. In questi giorni, quella che è emersa essere figura di dissenso è Elena Basile, ex-diplomatica in Svezia (dal 2013 al 2017) e in Belgio (dal 2017 al 2021), attualmente in pensione dopo circa 40 anni di servizio culminato alle dipendenze del Direttore generale per gli Affari politici e di sicurezza con il ruolo di Coordinatrice per l’Agenda “Giovani, Pace e Sicurezza” delle Nazioni Unite. Basile ha fatto irruzione nei talk show televisivi italiani in qualità di esperta di Medio Oriente e del conflitto tra Israele e Palestina.

Sia ad Otto e Mezzo sia a Piazzapulita, Basile ha dimostrato di conoscere profondamente ciò che dice, di conoscere profondamente il diritto internazionale, i mezzi di informazione e di conoscerne le dinamiche. Sono bastate tre sue uscite televisive per poter essere smentita, ridicolizzata e silenziata in diretta, cosa che i conduttori e gli altri ospiti hanno comunque avuto difficoltà a fare. Il sindacato dei diplomatici, Sndmae, ha preso addirittura le distanze dal suo intervento  a Otto e mezzo.  Hanno aspettato, inoltre, che facesse una gaffe per screditarla. Lilli Gruber aveva l’ultima dichiarazione del portavoce della sicurezza nazionale della Casa Bianca, John Kirby, secondo il quale sarebbero pochi gli ostaggi statunitensi nelle mani dei miliziani di Hamas. “Peccato, perché, in effetti, se fossero tanti gli ostaggi americani, gli Stati Uniti potrebbero avere un ruolo di mediazione”, aveva poi dichiarato Basile. Un intervento che ha fatto perdere le staffe agli altri ospiti in studio.

Come spiegava benissimo Sabina Guzzanti, durante il Convegno Pace Proibita: “Il motivo di questa apparente contraddizione, per cui convivono pensiero unico e il fatto che “ognuno possa dire la sua” è squisitamente drammaturgico”. Non è una scoperta che la società odierna si muove attraverso il consumo dell’immaginario, prima che delle cose materiali: il problema è che il consumo ha invaso anche il campo del dibattito politico. Guy Debord, nella sua opera Commentari sulla società dello spettacolo, analizzava con grande anticipo come la società consumistica non fosse l’unico valore riconosciuto, bensì lo spettacolo integrato: per sfuggire dalle nostre vite troviamo riparo nel consumo dell’immaginario con le fiction e con il virtuale, auto-condannandoci a vivere una vita per procura.

Nel 1947, Max Horkheimer e Theodor Adorno pubblicarono il libro Dialettica dell’Illuminismo in cui si denunciava il rovesciamento dialettico della cultura da mezzo di contestazione a merce di consumo, assumendo sempre di più i tratti della produzione industriale di massa: conformismo, ripetizione di stereotipi, riproducibilità in serie. Non sono forse caratteristiche tipiche dei prodotti televisivi e dei nostri talk show? Questo consumo ha profondamente modificato il nostro modo di pensar e concepire il mondo reale, riducendo anche il dibattito democratico ad un prodotto di “consumo culturale” che l’industria culturale pensa per i suoi spettatori. I talk show esattamente come tutta l’informazione si devono presentare come prodotti gradevoli, immediatamente accettabili e soprattutto ripetitivi e banali, mettendo da parte la “feroce critica rivoluzionaria”.

L’informazione attuale “è sempre più simile alla fiction e nella fiction c’è uno sceneggiatore che decide se farti identificare con una brava donna o con Dexter, il serial killer” – affermava Sabina Guzzanti – “Se ogni tanto c’è pure un ospite contrario alla guerra è semplicemente perché ogni dramma ha bisogno di un antagonista”. Ecco, dunque, la funzione drammaturgica del dissenso, in quanto, nei talk show, viene concesso di esprimersi come macchietta per alimentare la macchina della propaganda, avendo il pretesto di ripetere all’infinito i suoi concetti, quasi sottintendendo che c’è qualcuno che non ha ancora capito la lezione o che è duro di comprendonio. La funzione dell’antagonista del dissenso è fondamentale non tanto perché la ripetizione ossessiva serva ad imporre il punto di vista dominante, ma piuttosto a portare avanti una campagna di persuasione in sostituzione al confronto democratico.Nella società dello spettacolo, per dirla con Debord, il dissenso è drammaturgico perché è una presenza irrilevante alle conseguenze dei fatti e non cambia il corso degli eventi che è già deciso. La propaganda, in questo senso, deve creare consenso a quello che è già stato deciso e lo fa o con la paura o con il ricatto sottinteso: “se non aderite a questa narrazione siamo in pericolo, se dissentite non sapete a cosa andrete incontro”. La propaganda addestra i suoi spettatori all’insicurezza e alla contemplazione dei fatti in totale passività, impedendo di esercitare la critica e, nel migliore dei casi, rovesciare l’esistente.

Con la ripresa massiccia del conflitto in Palestina, il mainstream e la sua propaganda ci chiedono di identificarci e lo fanno in un modo drammaturgico tale che lo spettatore percepisca che se sta da una parte verrà identificato con il nemico (Palestina, Hamas) e se sta dall’altra verrà identificato con l’amico (Israele).

La teoria del disgusto di Bismark.

La propaganda continua a raccontarci i conflitti che si susseguono come se fossero gli unici conflitti del momento e lo fa passando da un’argomentazione di tipo razionale ad un condizionamento puramente emotivo, irrazionale, basato su tecniche di manipolazione ispirate alla psicologia sociale di Gustave Le Bon o alla “teoria del disgusto” di Bismarck. Si tratta delle stesse tecniche di persuasione occulta che si elaborarono nell’Ottocento e che sono alla base delle guerre coloniali. Bismarck è stato il primo a porsi il problema di rendere accettabile la guerra e la sua soluzione è stata indurre al disgusto: demonizzando l’avversario si genera disgusto ed il disgusto ci porta infallibilmente all’indignazione e alla richiesta della guerra per combattere il male. In sostanza è quello che i media occidentali stanno facendo con Hamas e con il popolo palestinese, volendoli identificare nel calderone del “terrorismo islamico”.

In questi giorni è bastato dimenticare 75 anni di occupazione coloniale israeliana della Palestina e i casi di violenze militari di stampo razzista commessi dalle Forze di Occupazione Israeliane (IOF) prima del 7 ottobre, per legittimare qualunque azione di Israele contro il popolo palestinese chiamandola “legittima difesa”. Il monito che si continua a riesumare è il caso, ormai smentito come menzogna di guerra, dei “bambini decapitati da Hamas” per sottolineare come questo sia esempio di ferocia, violenza inaudita e violazione totale della vita umana da parte di un gruppo di terroristi, fondamentalisti, islamisti, nemici del “mondo occidentale democratico” e tutto il corollario che ne deriva.

Nonostante sia stata accertata come fake news, oggi è il fatto giornalistico che viene usato nel mainstream per indurre al disgusto, verso il “nemico palestinese”, e alla comprensione dell’“amico israeliano”, provocando negli spettatori indignazione, commozione, angoscia e solidarietà pilotate. E qui si innesta anche il discorso dello spettacolo, della fiction che deve mettere in scena l’indicibile e l’intollerabile per creare nell’opinione pubblica la pulsione verso la guerra. Il linguaggio con cui viene divulgata questa narrazione non è mai di stampo razionale, ma emotivo e se niente è razionale, non è alla ragione, ma ai moti emotivi che si ricorrere per condizionare il popolo. Con la postmodernità il pensiero debole ha sostituito il pensiero forte e l’opinione ha prevalso sulla ragione. Non è un caso che l’opinionismo dei talk show sia il principale veicolo di confusione e quindi di propaganda, come ci ricordava Giorgio Gaber.

Come diceva Guy Debord: “l’imbecillità crede che tutto sia chiaro quando la televisione ha mostrato una bella immagine e l’ha commentata con una coraggiosa menzogna”.

L’unica alternativa a questo circolo vizioso di propaganda è informarsi partendo dalla storia del popolo palestinese, dalla storia del sionismo, dalla strage genocida della Nakba ad opera di Israele nel 1948 e dall’azione del colonialismo israeliano per capire chi oggi richiede giustizia e liberazione da uno stato di oppressione in Palestina.