L’espansione della geografia della resistenza palestinese: perché Israele non può sconfiggere i palestinesi

Palestine Chronicle. Di Ramzy Baroud. C’è una ragione per cui Israele insiste nel voler collegare la serie di attacchi, recentemente compiuti dai palestinesi, a un luogo specifico, ovvero il campo profughi di Jenin, nel nord della Cisgiordania. Così facendo, il governo di Naftali Bennett può limitarsi a ordinare un’altra micidiale operazione militare a Jenin, al fine rassicurare i propri cittadini sul fatto che la situazione è sotto controllo.

Il 9 aprile, infatti, l’esercito israeliano ha preso d’assalto il campo profughi di Jenin, uccidendo un palestinese e ferendone altri dieci. Tuttavia, il problema di Israele è molto più grande rispetto alla sola Jenin. Se esaminiamo la serie di eventi, iniziati con l’attacco con coltello del 22 marzo nella città meridionale di Beersheba (Bir Al Saba’) , che ha provocato la morte di quattro persone, e si è conclusa con l’uccisione di tre israeliani a Tel Aviv, tra cui due ufficiali dell’esercito, arriviamo a una conclusione ovvia: questi attacchi devono essere stati, in una certa misura, coordinati tra loro.

La rappresaglia spontanea palestinese alla violenza dell’occupazione israeliana raramente segue questo schema in termini di tempi o stile. Tutti gli attacchi, ad eccezione di Beersheba, sono stati effettuati utilizzando armi da fuoco. I tiratori, come indicato dai video amatoriali e dalle dichiarazioni di testimoni oculari israeliani, erano ben addestrati e agivano con grande compostezza.

Un esempio è l’attacco avvenuto a Hadera il 27 marzo, condotto da due cugini, Ayman e Ibrahim Ighbariah, della città araba di Umm al-Fahm, all’interno di Israele. I media israeliani hanno riferito delle incredibili abilità degli aggressori, armati con armi da fuoco che, secondo l’agenzia di stampa israeliana, Tazpit Press Service, costano più di 30.000 dollari.

A differenza degli attacchi palestinesi effettuati durante la Seconda Intifada Palestinese (2000-2005), in risposta alla violenza israeliana nei Territori occupati, gli ultimi attacchi sono generalmente più mirati, ricercano personale di polizia e militare, e chiaramente mirano a scuotere il falso senso di sicurezza di Israele e a minare servizi di intelligence del paese. Nell’attacco di Bnei Brak, il 29 marzo, ad esempio, una donna israeliana presente sul posto ha detto ai giornalisti che “il militante ci ha chiesto di allontanarci dal luogo, perché non voleva prendere di mira donne o bambini”.

Sebbene i rapporti dell’intelligence israeliana abbiano recentemente avvertito di un’”ondata di terrorismo” in vista del mese sacro del Ramadan, chiaramente avevano poca certezza del tipo di violenza, o dove e come avrebbero colpito i palestinesi.

Dopo l’attacco di Beersheba, i funzionari israeliani hanno dichiarato la responsabilità di Daesh, un’affermazione di convenienza, considerando che anche Daesh aveva rivendicato la responsabilità. Questa teoria è stata rapidamente smentita, poiché è venuto alla luce che gli altri militanti palestinesi avevano altre affiliazioni politiche o, come nel caso Bnei Brak, nessuna affiliazione nota.

La confusione e la disinformazione sono continuate per giorni. Poco dopo l’attacco di Tel Aviv, i media israeliani, citando fonti ufficiali, hanno parlato di due aggressori, sostenendo che uno era intrappolato in un edificio vicino. Questo non era affatto vero, in quanto c’era un solo aggressore che poi è stato ucciso, anche se ore dopo in un’altra città.

Un certo numero di lavoratori palestinesi sono stati arrestati a Tel Aviv, con l’accusa di essere i responsabili degli attacchi, semplicemente perché sembravano arabi, a riprova del caotico modo di agire israeliano. In effetti, dopo ogni attacco, è seguito il caos totale, con grandi folle di israeliani armati scesi in strada, alla ricerca di chiunque avesse caratteristiche arabe, per arrestarlo o picchiarlo senza un motivo preciso. Funzionari israeliani hanno contribuito alla frenesia e al delirio collettivo, con politici di estrema destra, come l’estremista Itamar Ben Gvir, che guidavano orde di altri estremisti alla riscossa nella Gerusalemme occupata.

Invece di esortare alla calma e mostrare sicurezza, il 30 marzo lo stesso primo ministro ha invitato i comuni israeliani ad armarsi. “Chiunque abbia un porto d’armi, questo è il momento di usarlo”, ha detto in una dichiarazione video. Tuttavia, se la soluzione a qualsiasi forma di resistenza palestinese fosse l’aumento di armi degli israeliani, i palestinesi sarebbero stati pacificati molto tempo fa.

Per placare gli israeliani arrabbiati, l’esercito ha fatto irruzione nella città e nel campo profughi di Jenin in più occasioni, lasciando ogni volta diversi morti e feriti palestinesi, inclusi molti civili. Come Imad Hashash, 15 anni, ucciso il 24 agosto mentre filmava l’invasione sul suo cellulare. Lo stesso identico scenario si è verificato il 9 aprile.

Tuttavia, è stato un esercizio futile, poiché è stata la violenza israeliana a Jenin, nel corso degli anni, a generare la resistenza armata che continua a provenire dal campo. I palestinesi, sia a Jenin che altrove, reagiscono perché vengono loro negati i diritti umani fondamentali, non hanno orizzonte politico, vivono in condizioni di estrema povertà, non hanno una vera leadership e si sentono abbandonati dalla cosiddetta comunità internazionale.

L’Autorità Palestinese di Mahmoud Abbas sembra essere del tutto delegittimata dalle masse. Le dichiarazioni di Abbas riflettono la sua lontananza dalla realtà della violenza israeliana, dell’occupazione militare e dell’apartheid in tutta la Palestina. Fedele alla forma, Abbas ha prontamente condannato l’attacco di Tel Aviv, come ha fatto per i precedenti, facendo ogni volta riferimento alla necessità di mantenere la “stabilità” e di prevenire “un ulteriore deterioramento della situazione”, secondo il notiziario ufficiale dell’agenzia Wafa.

A quale stabilità si riferisce Abbas, quando la sofferenza palestinese è stata aggravata dalla crescente violenza dei coloni, dall’espansione degli insediamenti illegali, dal furto di terre e, grazie ai recenti eventi internazionali, anche dall’insicurezza alimentare?

Funzionari e media israeliani, ancora una volta, stanno convenientemente attribuendo la colpa in gran parte a Jenin, un minuscolo tratto di un’area sovrappopolata. Così facendo, Israele vuole dare l’impressione che il nuovo fenomeno degli attacchi palestinesi sia confinato in un unico luogo, adiacente al confine israeliano e facilmente ‘’gestibile’’.

Un’operazione militare israeliana sul campo può servire all’agenda politica di Bennett, al fine di trasmettere un maggiore senso di forza e riconquistare alcuni membri del suo disincantato collegio politico. Ma tutto ciò rappresenta solo una soluzione temporanea. Attaccare Jenin ora non farà alcuna differenza nel lungo termine. Dopotutto, il campo è risorto dalle ceneri della sua quasi totale distruzione da parte dell’esercito israeliano nell’aprile 2002.

I nuovi attacchi palestinesi tracciano una geografia molto più ampia: Naqab, Umm al-Fahm, la Cisgiordania. I semi di questa connessione territoriale sono legati alla guerra israeliana dello scorso maggio e alla successiva ribellione palestinese, scoppiata in ogni parte della Palestina, comprese le comunità palestinesi all’interno di Israele.

Il problema di Israele è la sua testardaggine nel fornire soluzioni militari a breve termine per un problema a lungo termine, risultato a sua volta proprio da queste ‘’soluzioni militari’’. Se Israele continua a soggiogare il popolo palestinese con l’attuale sistema di occupazione militare e a intensificare dell’apartheid, i palestinesi continueranno sicuramente a reagire, fino a quando la loro realtà oppressiva non sarà cambiata. Nessuna dose di violenza israeliana potrà modificare questa verità.

(Foto: il corteo funebre di due palestinesi uccisi vicino a Jenin. Social media).

Traduzione per InfoPal di G.B.