Palestina, la nascita del Movimento Arin al-Usud verso una nuova Intifada?

InfoPal. Di Lorenzo Poli. Un nuovo movimento rivoluzionario sta investendo la Cisgiordania, tra l’immobilismo della classe politica palestinese, il collaborazionismo dell’ANP, e la risposta violenta, razzista e coloniale da parte dell’occupazione sionista. Il nome di questo movimento di Resistenza è Areen al-Usood, ovvero Fossa dei Leoni, e resta da chiedersi se sia un movimento transitorio, un movimento organizzato, una semplice reazione o a una Nuova Intifada contro il regime di apartheid. Ne parliamo con Romana Rubeo, giornalista, orientalista, traduttrice e redattrice di Palestine Chronicle, sito d’informazione sul Medioriente e la Palestina.

Cosa sta avvenendo in queste ore in Palestina?

In una parola, la situazione in Palestina, e particolarmente in Cisgiordania, è incandescente. Secondo i dati ufficiali del ministero della Salute di Ramallah, sono stati uccisi almeno 177 palestinesi dall’inizio dell’anno, di cui 49 nell’operazione militare sulla Striscia di Gaza dello scorso agosto. In Cisgiordania, è il numero più alto dal 2015, e questo segue incursioni, retate, arresti, invasioni su base quotidiana dei principali campi profughi della Cisgiordania da parte dell’esercito occupante. Situazioni che vanno ad aggiungersi a una realtà già contrassegnata, ordinariamente, dall’occupazione e dal regime di apartheid denunciato a più riprese da moltissime organizzazioni dei diritti umani. D’altro canto, a questa situazione incandescente, corrisponde un sollevamento popolare forte e strutturato, che risulta una sorta di continuum rispetto agli avvenimenti che avevamo visto nel maggio scorso, che non teme il ricorso alla lotta armata e che presenta un elemento di rottura con le esperienze degli ultimi vent’anni.

Come nasce il Movimento Fossa dei Leoni? È l’unico movimento che sta nascendo in Cisgiordania?

Per gli analisti che seguono da vicino la politica palestinese, era già evidente che si stesse profilando una rottura rispetto al passato. Jenin e Nablus, da mesi, facevano da apripista per un ritorno esplicito alla lotta armata. Non a caso, Shireen Abu Akleh viene uccisa a Jenin, mentre prova a raccontare questo fermento. Una data importante, poi, è senz’altro quella del 9 agosto. Israele conduce un’operazione di alto profilo a Nablus, accerchia l’abitazione in cui si trova il giovanissimo (appena diciottenne) Ibrahim al-Nabulsi, leader della resistenza nella città, e lo uccide sparando un missile. Israele, domenica notte, ha ucciso 6 persone, 5 a Nablus ed una a Ramallah. Quella che sembrava una mossa risolutoria da parte di Israele si traduce, sul campo, in una presa di posizione fortissima da parte dei giovani palestinesi, che non sono più disposti a vivere una vita di umiliazioni. La madre di Ibrahim, al funerale, dice delle parole che suonano sibilline: “Siamo tutti Ibrahim. Ci sono 100, 1000 Ibrahim”. Qualche giorno dopo, ai primi di settembre, c’è la prima apparizione pubblica del movimento Areen al-Usood (Fossa dei Leoni), durante la cerimonia funebre di due giovanissimi combattenti uccisi durante un raid israeliano a Nablus, Muhammad Abu Saleh Al-Azizi e Abd Al-Rahman Subh. Il movimento, che nasce precisamente nella città vecchia di Nablus, si affianca a brigate presenti in altre città, come Gerusalemme, Jenin e Al-Khalil (Hebron), ma il suo potere simbolico sta già travalicando i confini di Nablus e quindi, probabilmente, ingloberà altre esperienze analoghe.

Si puo’ definire movimento spontaneo o un movimento con una nascente identità politica? Trova appoggio dagli intellettuali di sinistra?

È sicuramente un movimento che ha forti radici popolari, che si sviluppa dall’esperienza dei campi profughi in Cisgiordania e che riporta il focus della lotta armata anche in Cisgiordania, e non solamente nella Striscia di Gaza. Questa estrazione popolare lo rende particolarmente interessante anche sotto il profilo della lotta di classe in Palestina. Il grande intellettuale palestinese Ghassan Kanafani sosteneva che, tra i nemici del popolo palestinese, vi fosse anche la borghesia reazionaria del Paese, i cui interessi coincidevano con quelli della forza coloniale. Sebbene questo elemento sia molto sottovalutato quando si analizza la società palestinese, è innegabile che molte scelte dell’attuale classe dirigente palestinese abbiano coinciso con gli interessi della borghesia reazionaria, che si è fatta strumento e agente coloniale nella regione. In questo momento, sono gli ultimi dei campi profughi a sollevarsi, e lo fanno senza più scendere a compromessi, senza accettare posti di lavoro in cambio della resistenza. Lo fanno con l’appoggio della classe lavoratrice, che infatti indice scioperi generali nei momenti più salienti della lotta. È più delicato capire quale forza, all’interno della politica palestinese, sarà in grado di dare rappresentanza a questo movimento, soprattutto è difficile capirlo seguendo le nostre categorie in Occidente. Di sicuro, la sinistra socialista di Fatah ha, di fatto, perso il carattere rivoluzionario e, dunque, non è rappresentativa. I movimenti di matrice islamista – Hamas e Jihad Islamico – sono innegabilmente più radicati, insieme al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, che pure ha una sua funzione definita all’interno della Resistenza, nonostante i numeri non comparabili.

L’impressione è che le categorie del passato possano non essere pertinenti nella descrizione di questa fase e che questo movimento potrebbe determinare una svolta anche a livello di definizione delle forze in campo.

Credi che possa trovare alleanze in quella che chiamiamo Resistenza Palestinese o si pone come movimento di rottura?

C’è una considerazione preliminare da fare. Chiaramente, nessun movimento di lotta armata potrebbe nascere dal nulla, in modo completamente inedito, con persone completamente nuove, senza suscitare i fondati sospetti della società civile palestinese. Questi giovani e giovanissimi erano già, in qualche modo, attivi nei bracci armati dei gruppi politici che vanno a costituire la struttura della politica palestinese: le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, vicine a Fatah, le Brigate di Izz al-Din al-Qassam, vicine ad Hamas, le Brigate di Al-Quds, vicine al Jihad Islamico, e così via. Quello che cambia è l’atteggiamento di questi giovani rispetto al passato. Mentre nella Prima e nella Seconda Intifada, ogni gruppo aveva un proprio braccio armato, questo movimento non rinnega le origini, ma intende superarle. Intende creare una formazione trasversale, che non nega le sacrosante differenze di visione all’interno della società palestinese, ma che non vuole consentire al fazionalismo di paralizzare la resistenza e l’azione, come è avvenuto sinora.

In che modo si pone nei confronti della “soluzione binazionale”, posta con gli Accordi di Oslo del 1993, e con l’attuale proposta avanzata da partiti di sinistra palestinesi verso uno Stato Unico Democratico e Multiculturale?

Faccio una breve premessa. La questione delle “soluzioni” (binazionale o a uno stato) è molto più presente in Occidente che non sul campo. Per i palestinesi che vivono sotto occupazione, prioritario è il discorso della lotta di liberazione. Poi, verrà il tempo di capire come dotarsi degli strumenti istituzionali più idonei, ma al momento bisogna mettere fine all’occupazione militare, ai soprusi continui, agli arresti arbitrari, alle violenze quotidiane, all’espansione degli insediamenti coloniali, alle pratiche di apartheid, e così via.

In generale, rispetto alla politica tradizionale, si assiste anche a uno scarto generazionale. Questi ragazzi sono nati sicuramente dopo Oslo, molti addirittura durante o dopo la Seconda Intifada.
I presunti benefici, tutti in seno alla borghesia palestinese, della politica di negoziazione non li hanno neanche sfiorati, nella realtà in cui vivono. Per loro, Oslo è solo un accordo che ha portato, ad esempio, al cosiddetto coordinamento per la sicurezza, che vede le forze dell’ANP lavorare a stretto contatto con l’occupazione, con un atteggiamento che potremmo definire collaborazionista.

Questi giovani combattenti non ricordano i fasti rivoluzionari di Fatah, non hanno memoria vivida di eroi del passato, per loro sono una eco lontana che però non cambia in alcun modo le loro condizioni materiali. Per questo, sono letteralmente pronti a tutto. E per questo non hanno accettato le proposte avanzate dall’Autorità Nazionale Palestinese di essere, in qualche modo, inglobati all’interno di una dinamica istituzionale.

Come viene oggi percepito rispettivamente dall’opinione pubblica israeliana e palestinese?

Parto subito dal dire che in Israele c’è grandissimo imbarazzo e anche molta paura. Questi fatti, alla vigilia delle elezioni del primo novembre, stanno sparigliando le carte. Ci sono stati due attacchi letali contro militari israeliani, uno a Shuafat, uno a Nablus. Ci sono stati diversi ferimenti, molti coloni sono stati respinti e feriti. L’attuale capo di stato maggiore dell’esercito, Aviv Kochavi, parla di migliaia di arresti per operazioni legate alla lotta armata in Cisgiordania, nella cosiddetta operazione Breakwater. Qualcuno, come Benny Gantz, cerca di sminuire la portata del problema, ma alcuni analisti parlano di minaccia essenziale allo stato di Israele.

Per quanto riguarda il versante palestinese, mai come in questo momento, la spaccatura tra la classe dirigente e il popolo è particolarmente evidente, plastica.

Il popolo palestinese ama il movimento della Fossa dei Leoni e quelli affini, ama l’idea che i giochi non siano conclusi e che non si avrà una resa finché non cesserà l’occupazione. La classe lavoratrice sta esprimendo la propria solidarietà con scioperi generali continui. La portata simbolica di questo movimento è palpabile. Ad esempio, quando Israele era alla ricerca di Oday Tamimi, autore della prima operazione che ha ucciso una soldatessa israeliana, tutti i ragazzi del campo profughi si sono rasati i capelli per confondere le tracce. Tamimi è stato ucciso qualche giorno dopo, non confinato o nascosto, ma mentre sferrava un altro attacco alle porte dell’insediamento illegale di Ma’ale Adumim. Tamimi è diventato un eroe nazionale, cerimonie funebri in suo onore sono state celebrate in tutta la Palestina, anche a Gaza.

L’ANP, invece, è molto spaventata e molto irritata. Lo dimostra l’arresto, ai primi di ottobre, di Musab Shtayyeh, leader del movimento a Nablus e molto vicino ad al-Nabulsi. Shtayyeh è stato arrestato dalle cosiddette forze di sicurezza dell’ANP, suscitando una reazione fortissima tra le strade di Nablus. Si è raggiunta una tregua apparente tra le fazioni e l’ANP, ma il fuoco che prima covava sotto la cenere sembra ormai divampare, senza che l’attuale leadership possa controllarlo.

Israele, con l’occupazione coloniale e gli insediamenti illegali, ha cercato in tutti i modi di sguarnire la Resistenza palestinese in questi ultimi anni. Credi che queste Brigate possa finalmente dare inizio ad una nuova Intifada?

Israele continua a reagire secondo il modus operandi solito: più violenza, più restrizioni, più umiliazioni, più disumanizzazione. Lo fa perché, semplicemente, è nella sua natura. Lo stato ebraico nasce dall’apparato teorico del sionismo e non può che percorrere la strada della cancellazione della popolazione nativa per l’affermazione della propria stessa esistenza.

Il punto è che, nonostante ogni tentativo da parte di Tel Aviv – non oggi, ma nel corso della storia – i palestinesi si sono dimostrati agenti attivi, soggetti di resistenza, e non oggetti passivi dell’occupazione e dell’apartheid.

Non ha funzionato la Nakba, nel 1948, con la violenza e l’avvelenamento delle falde acquifere; non hanno funzionato decenni di guerre, violenze di ogni tipo, negazione dei diritti più elementari; non hanno funzionato le espulsioni forzate e le pratiche di “genocidio incrementale” di cui parla, a ragione, il professor Ilan Pappé.

Certo, tutte queste deprecabili azioni, commesse nella più totale impunità, hanno reso la vita dei palestinesi un inferno, ma non hanno mai stroncato lo spirito di un popolo che ha dimostrato, a più riprese, di sapersi ribellare, anche quando le condizioni esterne e le pressioni della propria classe dirigente portavano altrove.

È una nuova Intifada? Forse è presto per dirlo o forse ci siamo già dentro. Spinti anche da mutati scenari geopolitici, i palestinesi stanno dimostrando, ancora una volta, di saper remare contro la storia. Se fino a un paio di anni fa, si parlava di Accordi di Abramo e fine della causa palestinese per come la conoscevamo, oggi il panorama sembra completamente ribaltato.

In questi giorni, parliamo invece, di una rivolta strutturata che fa tremare i palazzi del potere, a Tel Aviv come a Ramallah.

Per ulteriori approfondimenti:

Un viaggio nella nuova resistenza palestinese: è in corso una intifada?

Hamas: escalation in Cisgiordania è una “estensione della rivoluzione”

Israele sospende permessi d’ingresso di 164 familiari legati al gruppo armato “Fossa dei Leoini”

Assassinato combattente di spicco della Fossa dei Leoni

Perché Israele ha paura della “Fossa dei Leoni”

https://www.invictapalestina.org/archives/47066

Il fenomeno delle ‘Brigate Jenin’ e de ‘La fossa dei Leoni’

https://www.invictapalestina.org/archives/47073